Recensione dello spettacolo Le Serve in scena al Teatro Studio Uno dal 17 al 20 gennaio 2019
Un appendiabiti, una pelliccia nera, un pouf, una lampada ad illuminare un telefono su di un tavolino e, sullo sfondo, un vecchio baule. Semplici elementi scenografici che in realtà possiedono un'anima ed interagiscono con i giovani attori sulla scena de “Le Serve” di Jean Genet.
Ciò che lo spettatore è chiamato a vedere è la rappresentazione di una commedia tragica, ispirata ad un evento di cronaca che ha sconvolto la vita di un piccolo villaggio francese, Le Mans, nel 1933.
Due sorelle, in servizio come serve presso una famiglia alto-borghese, trascorrono le loro pause dal lavoro emulando l'uccisione della “Signora”. Il loro “gioco” è fatto di alternanze dei ruoli: a turno, una indossa i panni della padrona e l'altra quelli della serva, provando mille modi per disfarsi di colei che amano e detestano al tempo stesso. Tuttavia, il gioco termina un attimo prima dell'uccisione, in quanto senza la Signora si verrebbe a vanificare la loro stessa esistenza.
L' altalenante gioco di scambi raggiunge il culmine quando, dopo aver fatto incriminare l'amante della Signora, le donne vengono informate della sua imminente scarcerazione. La paura di essere scoperte si amplifica condizionando a tal punto la loro capacità di distinguere la realtà dall'immaginazione. La verità dalla menzogna.
Punta sulla dicotomia vero/non vero l'adattamento dei due giovani registi, Michele Eburnea e Caterina Dazzi che, con Le Serve, hanno vinto il premio Nazionale delle Arti 2018 – sezione Regia.
Lo spettacolo trasuda di passione: quella passione giovanile che spinge a dare il massimo sulla scena e in regia. Dietro ogni movimento c'è uno studio accurato degli attori nel ricercare posture e movenze che possano delineare, nella mente dello spettatore, i profili delle due serve Claire e Solange (interpretate rispettivamente da Sara Mafodda, Mersila Sokoli). In alcuni casi prevarica l'esagerazione, raggiungendo picchi caricaturali che suscitano ilarità in platea, riuscendo a stemperare i toni della rappresentazione scenica.
Ci si aspetta che da un momento all'altro entri in scena la Signora. Ma è proprio la sua “assenza” ad enfatizzare la sovrapposizione di piani di cui è permeato tutto lo spettacolo. La Signora c'è negli oggetti inanimati, nel gioco ripetitivo delle serve che, come un mantra, ripetono di continuo le espressioni e i gesti della loro padrona. Una ripetizione che, in alcuni momenti, risulta ridondante.
Tuttavia, ciò che interessa ai due registi non è rappresentare in modo oggettivo le due donne. Piuttosto, analizzare la spaccatura tra reale ed irreale. L'obiettivo, centrato pienamente, è mostrare quanto la mente umana possa, in alcuni casi, perdere la razionale lucidità che consente a ciascuno di distinguere la realtà oggettiva da una sua proiezione interna. Ed è in questo gioco di ambivalenze che si insinua nello spettatore il dubbio di non sapere cosa, dello spettacolo appena visto, possa essere reale e cosa invece surreale.
Carmen De Sena
22 gennaio 2019