Recensione dello spettacolo “A che servono questi quattrini” di Armando Curcio regia di Giuseppe Miale di Mauro, con Pietro de Silva e Francesco Procopio. In scena al teatro Ghione dal 29 dicembre al 13 gennaio 2019
Alcune prerogative umane sono senza tempo: non sono nè antiche nè moderne ma eternamente attuali . Forse è per questo che una commedia scritta da Armando Curcio nel 1940 non necessita di alcun aggiornamento contenutistico se ad essere portato in scena è un certo agire umano.
Un povero diavolo, Vincenzino, (Francesco Procopio) da sempre gran lavoratore, si è licenziato da tre mesi per abbracciare, in modo confuso e improvvisato, la filosofia del professor Eduardo Parascandolo ( Pietro De Silva), convinto assertore dell’inutilità del denaro e della nocività del lavoro, a tal punto da fondare un partito politico che ha come perno del programma il riposo per i primi ottanta anni. L’astinenza dal denaro e dalla fatica rende l’uomo perfetto. La sfida, secondo il professore, è quella di saper far bene il non fare niente sull’esempio dei grandi pensatori come Platone e Diogene, passati alla storia per aver capitalizzato al meglio la loro ricchezza intellettuale pur senza aver fatto niente nella vita. Vincenzino divide casa con sua sorella Carmela (Luana Pantaleo) e sogna di raggiungere una stella, Rachelina (Felicia del Prete), che vede talmente più grande di lui da non riuscire a proporsi a lei direttamente preferendo, invece, affidare ad una insistente serie di messaggi dal cellulare, l’espressione dei suoi sentimenti mai corrisposti. La filosofia del professore e del suo nuovo seguace contrastano, come fa notare a gran voce Carmela, con la quotidiana lotta alla sopravvivenza che necessita di lavorare e guadagnare, specie se nel frattempo si è contratto qualche debito con un certo De Simone (Andrea Vellotti) personaggio ambiguo e usuraio per hobby.
Alla preoccupazione di Carmelina che con maturità e concretezza tenta di distogliere il fratello da questa pericolosa filosofia, fa da contrappunto il poco senso di realtà di quest’ultimo che vive la propria condizione di nullafacente in modo infantile, intento a giocare con la play station e cellulare, invaghito da uno stile di vita accettato passivamente di cui non ha afferrato l’essenza ma solo la suggestione.Una improvvisa e bugiarda notizia di una eredità milionaria a loro favore, proveniente dal classico parente americano, modifica lo stile relazionale con il quale il mondo esterno si rapporta con Vincenzino e Carmela. I creditori diventano improvvisamente buoni amici tolleranti, e i negozianti così generosi da non voler nemmeno essere pagati. Il denaro e soprattutto l’apparenza di averne, rende credibili e avvicina le stelle lontane: così anche Rachelina, non senza sforzo, è disposta al matrimonio con Vincenzino mentre suo fratello Ferdinando ( Antonello Friello ), che poco prima aveva intimato a questi di smatterla di stalkizzare la sorella con i messaggi, già lo chiama cognato. Il mondo cambia con il denaro che fa vedere il bello anche dove non c’è..purchè si faccia la condivisione di beni.
Tra le pieghe della commedia, decisamente godibile e divertente, si cela la triste constatazione di una certa deriva sociale caratterizzata dalla valorizzazione dell’apparenza a scapito dell’essere. In questo frangente non è importante essere realmente ricchi, bensì farlo sembrare perchè l’agiatezza economica è uno status che trova approvazione, laddove la povertà o la difficoltà non sono ospiti graditi. I vissuti personali vengono nascosti e disconosciuti dalla maschera sociale che si è costretti ad indossare, dove un pianto lascia spazio ad un sorriso artefatto e ad un ottimismo di plastica e silicone. Rachele non si sarebbe mai data il permesso di conoscere realmente Vincenzino - che acquista credibilità ai suoi occhi solo con la sua presunta ricchezza - e adesso ride soddisfatta quando legge i suoi messaggi, insignificanti come sempre, ma che ora acquistano un rilievo diverso e non sembrano nemmeno così invadenti. Il denaro, oltre a modificare le interazioni con gli altri, cambia anche la relazione con noi stessi che d’improvviso ci scopriamo grandi viaggiatori, esigenti e raffinati intenditori di moda e grandi star ancora da scoprire, ma in realtà siamo solo dei capricciosi eternamente insoddisfatti perchè sempre più lontani da noi stessi. La povertà a volte salva più della ricchezza perchè si ritorna ad essere se stessi, come ci insegna suo malgrado Carmela, il personaggio più centrato della vicenda ma anche lei inebriata dai fumi della ricchezza e già in preda ad acquisti folli , salvata però dal risveglio dal sogno.
Recitazione complessiva decisamente credibile e piacevole: in particolare Francesco Procopio, Pietro De Silva e Luana Pantaleo intercettano efficacemente le anime dei loro personaggi, anche se quelli di Vincenzino e del professore Parascandolo sono sembrati, alla lunga, leggermente stereotipati con poche gradazioni caratteriali rischiando, a tratti, la prevedibilità. Efficace l’interpretazione di De Silva che riesce a condensare in un unico personaggio signorilità, cultura e delirio. Eleganti alcune scelte registiche ad opera di Giuseppe Miale Di Mauro, orientate ad esaltare l’autenticità della rappresentazione, quasi a voler sfumare i contorni tra realtà e finzione. In particolare, la scelta di eliminare le quinte trattenendo ai lati del palcoscenico gli attori in procinto di entrare in scena o che terminano la loro parte, e il cambio di scenografia attuato dagli stessi artisti a sipario aperto restituisce spontaneità al lavoro teatrale. E’ sembrato invece forzato, nei dialoghi, il riferimento a più riprese alla situazione politica attuale o del recentissimo passato che di fatto ha snaturato leggermente il clima della commedia, rischiando di sembrare frutto più di un vissuto personale del regista che della volontà di apportare qualcosa di nutriente allo spettacolo. Ben riuscito il dialogo tra luci (Giuseppe Filipponio) e scenografia (Fabiana Di Marco ) capace di produrre suggestioni visive di buona fattura poetica, come la trasformazione di una facciata esterna di un palazzo di Napoli in un cielo stellato o esaltando i contorni caratteriali di alcuni personaggi. L’apporto luci è stato inoltre ben utilizzato nella sottolineatura di sequenze chiave della vicenda, illuminando solo i personaggi coinvolti e lasciando gli altri nella penombra dello sfondo.
Simone Marcari
7 gennaio 2019