Recensione della rappresentazione Et manchi pieta’- Artemisia Gentileschi e le musiche del suo tempo in scena il 14 e 15 novembre 2018 al Mattatoio Teatro 1
Nell’oscurità del Teatro 1 al Mattatoio, con strumenti barocchi, il cui profumo sprigionato dal legno sembra essere parte della melodia, i tredici orchestrali dell’Accademia d’Arcadia raccontano la musica interiore di Artemisia Gentileschi, coraggiosa, malinconica e geniale pittrice romana. Alle loro spalle a dar volto alle vibrazioni evocate dalla musica, un filmato curato dalla compagnia Anagoor, suddiviso in tredici capitoli con relativi temi musicali, fotografa momenti significativi nella biografia dell’artista formando con l’orchestra un unico accordo impreziosito dal canto del soprano Silvia Frigato.
Ad andare in scena non sono le opere di Artemisia bensì ciò che fa da sfondo e viene prima dell’opera stessa, ovvero il suo vissuto emotivo conseguente le vicende che hanno segnato il suo sguardo sul mondo, come lo stupro subito ad opera di Agostino Tassi, un collaboratore del padre, il pittore Orazio Gentileschi. Ad essere cantati sono i suoi occhi malinconici imbrigliati dal clima culturale dell’epoca che voleva la donna confinata dentro casa e deprivata degli scambi con l’esterno, quegli stessi occhi che all’età di dodici anni hanno visto la madre morire. L’intento della compagnia Anacoor sembra quello di comunicarci che soltanto a partire dalla biografia è possibile cogliere pienamente l’opera . A tal proposito molto suggestivo il capitolo Casino delle Muse in cui musica e immagini si fondono per esaltare la delicatezza con la quale la giovane Artemisia alle prime esperienze artistiche affianca il padre nel completamento dell’affresco al Casino delle Muse. Di sapore opposto il capitolo Fall Dark (caduta) dedicato alla violenza sessuale subita: la brutalità delle immagini relative all’approccio del Tassi sono intervallate da istanti di schermo buio in cui coabitano dramma interiore e disillusione. Naturale sviluppo di questa vicenda e’ il capitolo SIby’s Vice (il morso della sibilla) che ritraendo Artemisia nell’atto di celare con un telo il quadro Giuditta e Oloferne, allegoria di vendetta, rimanda al desiderio di ricominciare a vivere: tuttavia lo sguardo malinconico dell’artista e i suoi abiti scuri ci dicono che qualcosa e’ morta per sempre .
Molto apprezzabili gli spunti di metateatro presenti nelle immagini videoproiettate dove l’attrice interprete di Artemisia viene filmata nei panni di se stessa dopo la conclusione della scena, quando il set viene smontato e ciò che sembrava reale tradisce la sua artificiosità. Tuttavia, in questo ritorno alla normalità rimangono impigliate negli occhi dell’attrice la malinconia e la sofferenza del suo personaggio, come se la portata emotiva della biografia di Artemisia fosse qualcosa di corporeo che risuona e rimane nel vissuto delle persone.
Lavoro finale solo discretamente convincente: a fronte di alcune riuscite alchimie tra musica e immagini, pesa la poca decifrabilità di una parte di quest’ultime che costringono il pubblico ad un lavoro di interpretazione distogliendolo dalla spontaneità di cogliere i singoli aspetti della rappresentazione come un tutto. L’inserimento di attori vestiti con abiti contemporanei all’interno di un film in costume sovraccarica ulteriormente il libero fluire delle sequenze figurate comprimendo troppo l’aspetto emozionale. Forse sarebbe stato più funzionale alleggerire le immagini rendendole più fruibili nell’immediato e lasciare che fosse la musica a vestirle e completarle come il titolo stesso della rappresentazione suggeriebbe.
Simone Marcari
16 novembre 2018