Giovedì, 10 Ottobre 2024
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Graham Vick e le sue Nozze di Figaro: l’opera sul potere che divide il pubblico per la sua rivisitazione

Recensione dello spettacolo "Le nozze di figaro" in scena al teatro dell'Opera di Roma dal 30 ottobre al 11 novembre 2018

 

Un’opera fluida, veloce e dinamica che, anche nella sua rilettura contemporanea e un po’ astratta si fa apprezzare…almeno fino all’ultimo atto.

Sull’Opera attuale ci siamo ritrovati a fare una considerazione seguendo in questi anni le recite al meraviglioso Teatro Costanzi, luogo nato per l’arte lirica e il balletto ancor prima che Roma diventasse capitale. Senza mai perdere il filo del tempo che passa e senza mai, d’altro canto, rimanere per forza di cose ancorati ad un ideale arcaico che in periodo di intelligenze artificiali rischia di diventare anacronistico, immaginatevi di essere in platea. Il teatro è gremito, ci mancherebbe c’è Mozart con le sue Nozze di Figaro. Gli abiti buoni son stati indossati e dopo la celeberrima ouverture del prodigio di Salisburgo e il “Non più andrai, farfallone amoroso” un’adorabile signora durante l’intervallo, ci chiede candida e senza titubanze: «ma a voi piace così, moderna?».

Eccolo il punto da cui si snoda la concezione dell’Opera lirica. Probabilmente anche quando ancor Roma non era capitale, generazioni di amanti del teatro si saranno trovati a dibatter su questo punto: a voi, piace così moderna?

Facciamo adesso un salto sull’opera del regista Graham Vick che già lo scorso anno aveva trasportato Così fan tutte (o la scuola degli amanti) in una vera e propria aula scolastica fra alunni e professori. Se dovessimo pensare ad una riproposizione delle Nozze stile Strehler 2015 in allestimento storico, beh saremmo fuori strada.
Il suo approccio è differente e lo sappiamo già, considerando la rilettura politica che fece, sempre al Costanzi, del Mahagonny nato dal sodalizio vincente tra Brecht e Weill: «Sarà un allestimento moderno con costumi moderni, ma non è stato attualizzato – raccontava Vick in un’intervista – Ma le persone in scena siamo noi: ho voluto mantenere la stessa teatralità e la freschezza del testo. Anche nell’opera di Beaumarchais non esiste un’epoca precisa anche perché ha già spostato la storia dalla Francia alla Spagna» e così è stato.

È vero, mancano gli abiti originali, quel gusto sfarzoso settecento di un’aristocrazia al potere che iniziava a perdere, lungo la strada dell’Illuminismo, i suoi pezzi di organza. Vero, manca la scenografia regale di ciò che le aree di Mozart portano alla mente. Certo è che qualcuno avrebbe potuto facilmente storcere il naso osservando un Figaro vestito da cameriere d’albergo o una Contessa di Almaviva con i jeans strappati, distesa su una pelle di orso bianco che le fa da tappeto, all’interno di un appartamento dal design contemporaneo ed essenziale. Anche l’enorme elefante che da un quadro prende quasi vita per porsi al centro del palco con le sue possenti zampe, contornato da figure femminili e corpi nudi immobili e appesi alle pareti o abbandonati sulla scena, come fantocci usati e gettati da un potere prevaricatore, fanno piombare tutta l’opera all’interno di un bosco simbolico ed allegorico.

Per Graham Vick infatti Le Nozze di Figaro sono un’opera sul potere: dal Conte che vorrebbe ripristinare il suo “diritto feudale” su Susanna, a tutti gli altri personaggi non vogliono soltanto resistere alla sopraffazione ma anche dominare tramite il mezzo del sesso. Il regista inglese non rimane però intrappolato all’interno di una trama o di una concezione e riesce ad innescare a uno a uno tutti gli attori che, senza l’utilizzo delle chiome e delle parrucche settecentesche o delle ciprie e dei ceroni, mostrano se stessi all’interno del loro personaggi.

I personaggi, appunto: il loro essere sempre in serrato dialogo con il testo originale e con i suggerimenti delle aree musicali, ricreano il meccanismo teatrale della folle journée alla perfezione.

Le scelte di Vick, insomma, premiano il suo ideale, il suo spirito di rilettura e, per quanto riguarda appunto l’interpretazione dei protagonisti nulla da dire. Il Conte (Alessandro Luongo), Susanna (Benedetta Torre) e Cherubino (Reut Venturero) su tutti regalano quel senso di ideale collisione e aderenza tra spirito attoriale e personaggio incarnato: ottime esibizioni e soprattutto azzeccato dinamismo nell’occupare tutta la scena.

Insomma, fin qui i lati positivi. Fin qui la risposta al quesito iniziale, alla considerazione sull’Opera oggi sarebbe: sì, ci piace.

D’altronde nel complesso lo spettacolo fila perfettamente, almeno fino al quarto atto.

Qui arriva qualche dolente nota. Innanzi tutto non c’è il boschetto: siamo infatti ancora all’interno di un’ala del palazzo. Sulle maioliche poggiano le quattro zampe, del possente elefante di cui sopra e già qui il senso vacilla. Vick ha provato a spiegarne le ragioni, assumendo che la bestia è un riferimento al detto inglese “the elephant in the room”, un po’ l’equivalente del nostro “scheletro nell’armadio”. Certo, direte voi, di solito lo scheletro è ben celato nell’armadio, mentre l’elefante, anche se inserito in una finzione scenica e narrativa, è predominante e a tratti ingombrante.

Quindi le donne, due seminude appese per il collo a una parete della sala, altre agonizzanti o già morte gettate su sedie e carriole sparse qua e là quasi a trasformare il palazzo in un eccessivo castello di Barbablù, come in molti hanno già fatto notare. Un po’ come se Vick avesse voluto un po’ strafare nel dipingere e immortalare il senso illuministico e dichiaratamente anti sistema dell’opera. Che si tratti di provocazione, senza dubbio, ma non vorremmo che essa, gettata lì senza poi troppi riferimenti chiarificatori, fosse servita più a disorientare e svilire il lavoro registico precedente che a far apprezzare le allegorie e le critiche velate.

Infine le musiche. Partiamo dal presupposto che stiamo parlando di Mozart e, abbiamo detto tutto. Continuiamo dicendo che quest’opera è considerata la più perfetta tra quelle del genio austriaco, quindi va da sé che è considerata come tra le più perfette della storia. Ne Le Nozze di Figaro, Mozart riuscì ad integrare in modo miracoloso le diverse componenti del suo linguaggio musicale e drammatico e la forza attraverso cui egli diede vita alle rivendicazioni politiche dei personaggi di Beaumarchais, rendendo l’opera, insieme al Flauto magico la più illuminista di quelle di Mozart. In questo paesaggio di arte, perfezione, storia e legenda, il maestro Montanari riesce a posizionarsi appieno. Dinamico, agile, in linea armoniosa con le partiture, dirige con passione fresca e sempre in movimento. Dalle sue mani la bacchetta prende letteralmente vita e, animandosi, fluttua tra le note immortali, danzando insieme alla verve dell’esecutore. L’orchestra prende vita e l’ouverture, nonostante rimbalzi tra una scena di una cameriera afflitta che pulisce le stanze sul palco e un’altra che sinuosa si esibisce in sensuali movenze (altra allegoria non colta, delle probabili violenze perpetuate dal Conte in passato), rimane ben impressa nelle menti degli spettatori.

Stefano Montanari si rilassa e lascia respirare la musica e i cantanti: i tempi veloci, come questa commedia esige, ma non mancano le oasi più tranquille.

Insomma, la risposta finale alla domanda da cui siamo partiti si scinde in due strade: la prima porta agli applausi di un pubblico che ha colto le abilità singole dei protagonisti, la mano del regista che ha accompagnato l’ispirazione dei cantanti e la musica; la seconda allo scetticismo di alcuni, che poco Figaro e Mozart han trovato. La risposta, quindi è un’altra domanda: intriga, perché no?

 

Federico Cirillo

12 novembre 2018

 

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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