Recensione di Dobbiamo parlare in scena al Teatro Hamlet 8-11 novembre 2018 di Sergio Rubini, Diego de Silva e Carla Cavalluzzi
Dobbiamo parlare è una tragicommedia dalla genesi particolare. Gli stessi autori del testo, Sergio Rubini, Carla Cavalluzzi e Diego de Silva, ci dicono che l’hanno pensata per il teatro, ed infatti è andata in scena prima con il titolo Provando… Dobbiamo parlare. Dal teatro è nato il film del 2015, Dobbiamo parlare, con la presenza dello stesso Rubini, di Fabrizio Bentivoglio, Isabella Ragonese e Maria Pia Calzone, a cui sono seguite di nuovo molte repliche teatrali. Al Teatro Hamlet, Gina Merulli cura la regia di questa fortunata commedia riproponendola questa volta con quattro nuovi interpreti: Ilario Crudetti, Patrizia Casagrande, Alessandro Catalucci e Sabrina Biagioli.
Essi vestono i panni di due coppie, apparentemente agli antipodi, ma sostanzialmente simili nella loro essenza borghese. La vicenda si svolge in un unico atto, all’interno di un salotto di un attico al centro di Roma in cui vivono Vanni e Linda, lui scrittore di successo, Linda collaboratrice dei suoi libri. Loro due rappresentano la coppia radical chic, che professa ideali di sinistra, ma frequenta Costanza e Alfredo, una coppia di medici benestanti e di destra, che ostentano benessere materiale e ricchezza. Le vicende si svolgono in una nottata in cui, Costanza e Alfredo, in piena crisi, fanno irruzione a tempi alterni, poi insieme, a casa di Vanni e Linda. I due ospiti portano alla luce violentemente i loro conflitti, rinfacciandosi tutto ciò che hanno fatto l’uno per l’altro, soprattutto in termini economici. Appare subito evidente che si tratta di un sodalizio economico più che di un legame d’amore e nonostante i reciproci tradimenti, i due decideranno alla fine della nottata, di rimanere insieme. Non conviene a nessuno dei due spezzare il contratto matrimoniale. L’altra coppia invece, apparentemente serena e innamorata, ad un certo punto entrerà nel vortice della violenza verbale di Alfredo e Costanza e inizierà a esprimere un malessere latente, fino a quel momento celato persino a se stessi (come evidenzia la geniale scelta registica di mettere degli specchi sulla scena, davanti al passaggio dei quale, gli attori si girano e coprono il viso per non guardarsi). Nonostante i sentimenti autentici che li uniscono, come sottolinea con sprezzo Costanza dicendo che non hanno nulla ma solo l’amore, la loro crisi al mattino si risolverà con la rottura del rapporto da parte di Linda, che lascerà l’appartamento.
La struttura della rappresentazione inizialmente ci richiama il dramma da camera di Roman Polanski, Carnage, in cui i protagonisti sono reclusi in un’unica stanza, in un’unica notte, ma se ne distanzia per i contenuti. Viene delineato uno spaccato di vita contemporanea attraverso le due storie di coppia e di amicizia. La vera protagonista è l’alta borghesia benestante che si declina in due modalità: quella di destra, della coppia di medici, che considera la ricchezza uno status symbol, quella progressista radical chic che però frequenta gli stessi ambienti dell’altra coppia, vive in un appartamento costoso al centro di Roma e ha il colf. Come ci ricorda una canzone di Giorgio Gaber, l’appartenenza politica a schieramenti e ideali diversi, in questo caso, riguarda solo dettagli secondari; sostanzialmente le due coppie rincorrono lo stesso ideale di benessere.
Anche l’aspetto relazionale e personale è indagato in modo puntuale e dettagliato. La coppia Alfredo e Costanza è legata da soldi, vacanze, appartamenti e dichiaratamente non è innamorata; la coppia Vanni e Linda invece è legata da un’ intesa intellettuale, dallo stesso lavoro, ma sarà proprio questo uno dei motivi, non detti, della fine del rapporto: lei si è sentita privata del suo spazio di autonomia. Come Alfredo e Costanza si sono buttati addosso le loro insoddisfazioni e frustrazioni, scoprendo le magagne del loro rapporto, Vanni e Linda lo fanno per la prima volta quella notte, scoprendo un mondo non detto che li allontanava. Desideri dell’uno che non combaciavano con quelli dell’altra e viceversa sempre taciuti che quando vengono espressi hanno deflagrato la coppia. Fino a quel momento avevano preferito guardare la coppia di amici per non guardare la propria.
La rappresentazione risulta dinamica, vivace, dal ritmo incalzante che non fa calare mai l’attenzione del pubblico in sala. La regia di Gina Merulla si rivela ricca di trovate geniali che arricchiscono il testo e la rappresentazione cinematografica, dimostrando di aver operato un brillante adattamento teatrale. In primis, la scelta di una recitazione costruita su una grande corporeità dei personaggi che assumono pose e movimenti in base al ritmo scenico, il ricorso a stereotipie significative di atteggiamenti più interiori che esteriori, creano, a tratti, una sorta di coreografia che dà grande movimento alla scena. La presenza di specchi disseminati sulla scena, davanti ai quali gli attori puntualmente si nascondono, chiarisce lo stato d’animo dei personaggi che nascondono molti non detto nella coppia e soprattutto a se stessi. L’inserimento, in alcuni passaggi, della musica di Jacques Offenbach, la base musicale del ballo del can can, dà ritmo e colore alla narrazione. Gli attori si rivelano all’altezza di competere con i nomi illustri che li hanno preceduti, dando vita a personaggi ben caratterizzati e ben diretti dall’eccellente regia della Merulla. La loro presenza scenica e la forza della loro interpretazione è intensa e quasi violenta, arrivando al pubblico con tutta la sua potenza. Gli spettatori in sala escono dal teatro entusiasti della visione, molto divertiti ma anche provati dalle problematiche di coppia a cui hanno partecipato.
Mena Zarrelli
12 novembre 2018