Recensione dello spettacolo La Maladie de la Mort andato in scena al Teatro Argentina l’8 e 9 novembre 2018 nel percorso di stagione DALLA PAGINA ALLA SCENA
La scrittura di Marguerite Duras non è di facile comprensione. È una scrittura che si spinge al limite perché si presenta come un’esperienza dei limiti. Portarsi al limite di qualcosa vuol dire mettere in questione il senso di quella cosa di cui si è al limite. Così, in tutti i suoi testi, come in La Maladie de la Mort, ogni cosa è spinta all’estremo; tutto ciò che accade è parossistico ma, paradossalmente, non viene spontaneo chiedersi il perché. Tutto accade perché deve accadere.
Al calar delle luci, e a sipario già aperto, si viene risucchiati sin da subito nella proiezione di quanto sta per succedere davanti agli occhi di chi guarda. Nella trasposizione del testo della Duras la regista britannica Katie Mitchell, insieme alla drammaturga Alice Birch che ne cura l’adattamento, ha pensato bene di offrire al pubblico una forma di teatro inusuale: fondere sul palcoscenico teatro e “cinema” costruendo – verso il basso – la rappresentazione teatrale e – verso l’alto – attraverso un led wall la proiezione cinematografica della vicenda.
Un uomo e una donna sono in una stanza d’albergo. Lei (Laetitia Dosch) inizia a spogliarsi davanti a lui (Nick Fletcher) che la osserva senza guardarla. L’uomo è inerte e lo sarà sempre. Non ha emozioni, non ha sentimenti. È un pupazzo flaccido come il suo sesso e soffre di una strana patologia: la malattia della morte.
La donna è l’unica cosa viva in quella stanza, fuori il mare e l’infrangersi delle onde. L’accordo tra i due, sotto forma di pagamento, prevede che lei andrà tutte le sere nella stanza dell’albergo che affaccia sul mare. Lei non dovrà mai parlare e dovrà sottostare a tutto ciò che l’uomo le dirà di fare per lui. Solo poche parole al principiare della storia (intermente in lingua francese ad eccezione della voce narrante che racconta in lingua italiana), seguite da poche altre battute più in là, domande che servono per capire – o, quantomeno, cercano di capire – lo scopo di quegli incontri. L’unica cosa che conta per l’uomo è imparare come si ama, come si conosce un corpo femminile. Notte dopo notte lo osserva, lo scruta, lo indaga, cercando e interrogandosi sul suo segreto, sulla sua intimità ricorrendo persino alla violenza, quando necessario. Arriva persino a filmare, fotografare minuziosamente il corpo di lei nell’illusione di poter guarire dalla sua malattia ed imparare ad amare.
Sulla scena sono presenti un “cast” di tecnici con le telecamere pronti a filmare simultaneamente gli attori minuto per minuto sì da poter ricostruire lo spettacolo sul led wall in un gioco di rimandi e visioni, ciò permette allo spettatore di vivere l’esperienza del limite vis à vis con i personaggi della storia.
La Maladie de La Mort non è altro che un viaggio che porta agli estremi del sesso e che, attraverso il sesso, aiuta a sondare gli abissi del senso della vita e di ciò che è naturale da ciò che non lo è. È un percorso complesso, che dai margini (platea) permette di scrutare quel che è posto al centro (palcoscenico). Lo spettatore non è mai escluso dalla storia, non è estraneo alla vicenda: ciò che vede davanti a sé è se stesso nella sua nudità e debolezza. La voce narrante (Jasmine Trinca) – nell’adattamento della Birch si è scelto di narrare la storia dal punto di vista femminile invece che dal punto di vista maschile come è nel testo della Duras – aiuta a comprendere questo, anzi, offre altri spunti e pone altri interrogativi: perché l’incapacità dell’uomo di amare (e non della donna)? Perché la malattia della carne porta ad un vicolo cieco riducendosi solo ad una questione di puro sesso e nient’altro? Perché l’eterna incomprensione tra uomo e donna, perché questa incomunicabilità? Chi è debole e chi è forte? Ma, soprattutto, esiste un debole e un forte?
La Maladie de la Mort è l’esempio lampante di come il teatro può suscitare tantissimi spunti di riflessione e il merito non può che riconoscersi allo straordinario lavoro di Katie Mitchell, assieme a tutto il cast di attori, tecnici audio, video, truccatori, costumisti, che hanno saputo dar vita a un vero e proprio capolavoro. A luci spente non vi è più distinzione tra attore e spettatore perché anche quest’ultimo è parte della storia; così, anche di fronte alle scene di sesso l’attenzione non è concentrata sull’atto in sé per sé, ma è catalizzata sul “senso”, sul “fondamento” di una esperienza così comune quanto sconosciuta nel suo mistero e nel suo significato più profondo.
A voler proprio essere pignoli, l’unico difetto è forse dato dalla “delusione” di trovarsi di fronte ad una proiezione cinematografica più che a teatro, l’occhio corre verso lo schermo più che agli attori ma è giusto che sia così perché è questa l’intenzione della regista che afferma: «Volevamo usare le telecamere nello spettacolo per capire come l’uomo scruta il corpo della donna, interrogarci su come il suo corpo appare all’uomo, bilanciare il punto di vista maschile con il punto di vista femminile. Volevo offrire qualcosa che sapevo essere al di fuori di uno spettacolo teatrale “normale”. Così, quando lo guardi, in basso vedi il “teatro”, e in altro vedi sugli schermi le riprese che mostrano come quell’uomo che stai guardando sta scrutando il corpo della donna proprio in quel momento».
Costanza Carla Iannacone
11 novembre 2018