Recensione dello spettacolo La scortecata, in scena al Teatro India dal 30 Ottobre all’11 Novembre 2018
Dove la luce non entra, il Teatro trova una porta spalancata. La sua prima casa è lì, dove il Brutto è sovrano, dove la povertà scarnisce i corpi, dove lo sporco macchia ogni cosa. Nei vicoli maleodoranti, fra le case diroccate, dentro i bassi o le favelas, c’è una materia viva e pulsante, di cui il Teatro avido si alimenta, la stessa materia primordiale che lo ha generato. La recita è un bisogno ancestrale, la povera nudità dell’uomo si coprì non con gli abiti, ma con una maschera. Là dove ogni altra struttura non trova fondamenta, la vita stessa diventa Teatro.
E alla cultura popolare Emma Dante rende omaggio con “La scortecata”, adesso in scena al Teatro India. Il suo testo si ispira a una fiaba. Ovviamente non quella edulcorata dei film disneyani, ma la forma letteraria povera e nobilissima, che di quella cultura popolare è la più genuina espressione. Racconti dove la morte non viene celata e l’orrore della realtà si contrappone al fantastico; dove il grottesco, il truculento, lo scurrile si mescolano al sogno e non lo negano. La fonte è ovviamente “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile, il testo seicentesco prezioso scrigno di questo patrimonio.
La storia che qui si narra (nel cinema ripresa in forma fedele da Matteo Garrone nel suo “Il racconto dei racconti”) è quella di due sorelle, Rusinella e Carolina, vecchie decrepite e zitelle, che, vergognose del loro orribile aspetto, vivono ormai rinchiuse nel loro tugurio. Il re, che abita nel sovrastante castello, udita la voce di una delle due, se ne invaghisce, credendola appartenente ad una bella fanciulla. Le due megere ordiscono quindi una serie di inganni alle sue spalle, per poter concretizzare una insperata, tardiva conquista. Ma la realtà ineluttabile precipita su una delle due, che chiederà di essere scorticata dalla sua pelle avvizzita, che è l’abito della sua vecchiaia senza speranza.
Emma Dante, apportando poche modifiche alla trama originale di Basile, costruisce una fiaba nuova, la sua fiaba, quella di una donna di teatro, che omaggia il teatro. Nel suo testo infatti le protagoniste cambiano i ruoli, diventando via via il Re o la Fata che opera l’incantesimo. Ecco allora che la vicenda delle due sorelle appare frutto dell’immaginazione, una recita quotidiana che rende accettabile la loro misera realtà quotidiana. Nuova la morale dell’apologo: non più un monito ad inseguire vanamente la caducità della bellezza, ma l’esaltazione della funzione terapeutica dell’immaginazione, che diventa teatro. Teatro, si intenda, che cura, ma non salva: alla caduta delle illusioni si può contrapporre solo la morte.
La regista palermitana attinge a tutte le forme espressive della rappresentazione popolare. Chiama sul palcoscenico due attori (Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola), nel rispetto della tradizione settecentesca che voleva i ruoli femminili interpretati da uomini. Costruisce gag esilaranti, imponendo ai protagonisti movenze esasperate ed innaturali e una performance fisica che li lascia ansimanti e madidi di sudore al termine dello spettacolo. Sfronda il volgare dalla bugiarda accezione negativa e ne mostra la forza espressiva, tessendo dialoghi salacissimi, fatti di continue schermaglie ed insulti, cui solo la potenza immaginifica del dialetto napoletano è capace di donare valenza d’opera d’arte. Nel suo allestimento si avvale di minimi, semplicissimi elementi scenografici, due seggioline, una porta che all’occasione delimita lo spazio teatrale, un castello in miniatura che evoca il sogno, un lenzuolo dove celare l’impresentabile. Perfettamente inseriti anche i contributi musicali, dalla tradizionale “Comme facette mammeta”, alla toccante “Cammina cammina” di Pino Daniele.
Eppure, grazie alla inesauribile fertilità della sua inventiva e alla prestanza, sembra giusto definirla così, fisica e verbale dei suoi ottimi attori, in un’ora di spettacolo costruisce dal quasi nulla un fuoco di fila estenuante e coinvolgente, dal ritmo forsennato di una tammurriata.
E il suo omaggio al teatro popolare diventa un tripudio dell’essenza stessa del teatro.
Valter Chiappa
3 Novembre 2018