Recensione dello spettacolo “Il gatto”, in scena al Piccolo Eliseo dal 25 Ottobre all’11 Novembre 2018
C’è un’alternativa all’amore? Cos’altro può legare una coppia in maniera indissolubile? Cinico, spiazzante, provocatorio, Georges Simenon ha una inquietante risposta: l’odio, ovviamente.
Sposati in seconde nozze, nostalgici del defunto amore e della vita precedente, Émile (Elia Schilton) e Marguerite (Alvia Reale) su di esso costruiscono il loro ménage. Non è dato sapere se la loro sia una drammatica involuzione. Piace pensare che nel loro trovarsi ci sia stata una inconscia, malata progettualità, altrettanto tragica risposta all’angoscia della solitudine.
Non potrebbero essere più diversi, Émile e Marguerite. Lui, mastro in pensione, proletario e sanguigno, amante del ballo, del vino e del tabacco; lei, borghese decaduta, algida, frigida, chiusa nella rigida compostezza delle apparenze. Convivono nel reciproco disprezzo: lei non sopporta la puzza del suo sigaro, lui i suoi modi affettati. Il loro rapporto è attraversato da un rancore sempre gelido, mai esplicitato. Da anni non si rivolgono più la parola e comunicano solo attraverso astiosi bigliettini. La loro giornata è scandita da azioni escogitate e perpetrate con il solo scopo di infastidire l’altro. Una crudeltà quotidiana che sembra essere la loro unica ragione di vita.
Il punto di rottura coincide con il ritrovamento del cadavere del gatto che Émile adora (e che lei ovviamente detesta). Il sentimento sottaciuto diventa rabbia furente. L’uomo, convinto che il delitto sia opera della moglie, si vendica uccidendo il suo amato pappagallo. Facile metafora: il gatto, randagio e indipendente, è l’immagine di Émile; il pappagallo, dal bel piumaggio, ma legato al suo trespolo è ovviamente Marguerite. Nell’uccisione dei due animali si veicola quella violenza che i due non sanno far esplodere altrimenti. O meglio, non vogliono, perché, legati da quell’odio, hanno bisogno l’uno dell’altro.
Dall’episodio chiave si dipana l’adattamento di Fabio Bussotti. Il romanzo di Georges Simenon possiede una naturale vocazione teatrale. Sebbene, per la concezione stessa della vicenda, non sia facile ricondurlo ad un teatro di parola (ed infatti il recitato riflette quasi sempre il pensiero dei personaggi), l’accumularsi delle situazioni paradossali crea un crescendo coinvolgente, intriso di un umorismo più nero che mai, mentre le dinamiche psicologiche dei due protagonisti, opposte e infine convergenti, realizzano un contrappunto che offre ampio territorio all’interpretazione. L’allestimento registico di Roberto Valerio coglie questa opportunità, lasciando campo libero agli attori; attorno a loro solo un modesto arredo, il mondo esterno sono solo rumori lontani.
Chiamati alla prova Alvia Reale ed Elia Schilton, rispondono con una performance scintillante. Lascia particolarmente attoniti la, oseremmo dire, intensa passionalità, che la Reale riesce a inoculare nell’impenetrabile rigore di Marguerite. Il suo gelo è caldissimo, carico di dolore, tanto più intenso, in quanto forzatamente contenuto nelle apparenze. Per contro Schilton, coerentemente con l’indole del suo personaggio, fa evolvere l’atto recitativo, gesto e parola, verso una progressiva perdita del controllo, fino ad una follia diretta senza speranza alla definitiva sconfitta.
Sul palcoscenico del Piccolo Eliseo, pur partendo da un testo che, provocando sfacciatamente, intriga e coinvolge, va in scena quel teatro in cui, spogliati da ogni altra sovrastruttura, sono gli attori, soffiando nell’anima dei loro personaggi, a dilatarne i confini, apportando quel contributo che l’autore non poteva prevedere, quell’elemento che fa di ogni rappresentazione un evento unico ed irripetibile.
Valter Chiappa
27 Ottobre 2018