Recensione dello spettacolo Afghanistan in scena al Teatro Argentina dal 17 al 21 ottobre 2018.
Si conclude domani 21 ottobre, con una maratona di oltre sei ore, la saga-evento che racconta in due capitoli la storia antica e moderna di un Paese, l’Afghanistan, difficile da capire e ancor di più da rappresentare.
Due capitoli che nelle serate precedenti sono andati in scena alterandosi, Afghanistan, Il grande gioco il 17 e il 19 ottobre e Enduring Freedom il 18 e il 20 ottobre. Un racconto che si è snodato attraverso i testi di dieci autori fra i più interessanti della scena politica anglosassone: storie di semplici soldati, nobili e diplomatici senza scrupoli, spie, emiri, giovani re e regine, comandanti e mujahidin, reduci e vittime di una guerra troppo lontana da noi (ne siamo sicuri?) e che non accenna a finire.
Le parole di Stephen Jeffreys, Ron Hutchinson, Joy Wilkinson, Lee Blessing, David Greig, Colin Teevan, Ben Ockrent, Richard Bean, Simon Stephens e Naomi Wallace, mediate dalla regia di Ferdinando Bruni e Elio De Capitani, restituiscono al pubblico una ricerca storica accurata che ripercorre, dal 1842 ai giorni nostri, 170 anni di guerre, violenze, oppressioni, sogni e speranze di chi in quelle terre di confine è nato, ha governato, combattuto o tentato la fuga.
Un esperimento di drammaturgia contemporanea basato sulla coesistenza di dieci episodi narrativi indipendenti eppure correlati, interpretati da un cast di altrettanti attori (Claudia Coli, Michele Costabile, Enzo Curcurù, Alessandro Lussiana, Fabrizio Matteini, Michele Radice, Emilia Scarpati Fanetti, Massimo Somaglino, Hossein Taheri, Giulia Viana) impegnati nel vestire ora i panni del ministro spietato, ora quelli del re progressista.
Si passa così dai soldati inglesi di guardia nel primo conflitto anglo-afghano a Jalalabad alla creazione a tavolino di un assurdo confine tra l’Afghanistan e l’India Britannica, dalla fuga della regina Soraya e del suo re Amanullah Khan al sogno dell’ultimo presidente afghano di modernizzare un paese ormai assoggettato dai Talebani.
A legare ogni episodio all’altro c’è la storia che, proiettata su un fondale/sipario bianco, restituisce allo spettatore una bussola fatta di immagini e numeri necessari a introdurlo al racconto successivo e a orientarlo in un mare di avvenimenti in gran parte sconosciuti. E c’è la scenografia, quello spazio quasi vuoto che le luci e i video di Nando Frigerio aiutano a contestualizzare. Quel “non luogo – come sostengono gli stessi registi – spoglio e desolato come un centro di prima accoglienza in qualsiasi paese d’Europa: il punto di arrivo di un viaggio disperato e doloroso che è cominciato duecento anni fa”. Perché, non dimentichiamolo, questo spettacolo non è mero teatro politico, vuole essere soprattutto un grande affresco per capire meglio quello che sta succedendo oggi, per essere in grado di decifrare gli sguardi di disperazione e speranza di chi ha da tempo lasciato la valle del Panjshir e ci siede accanto, sul bus o in metropolitana, nel nostro viaggio di vita.
Concetta Prencipe
20 ottobre 2018