Recensione dello spettacolo Un chiodo nel mio stivale andato in scena al Teatro Sala Uno dal 5 al 7 aprile 2016
Ci sono delle nette differenze tra parole figurate e concrete, tra concetti che rimandano ad immagini e concetti che si concretizzano nella realtà.
Un chiodo nel mio stivale è il monologo di Daniel Terranegra, andato in scena al Teatro Sala Uno, in cui l’attore ripercorre il sogno del poeta russo Vladimirovič Majakovskij di fare a pezzi la favola dell’arte apolitica, le tristezze di una vita che vuole solo continuare a sentire la vita e andare avanti senza uno scopo. In parole povere, si tratta di uno studio che ripropone concetti politici e poetici universali che viaggiano sul binario della Rivoluzione.
Terranegra è solo sulla scena. Si muove tra un gioco di luci e ombre, legge e commenta le opere del poeta bolscevico e, oltre a ciò, spiegandolo e rileggendolo attraverso gli occhi e le opere di Boris Pasternak. Attraverso questo monologo si scoprono quindi le speranze, i sogni e l’intento di Majakovskij di mettere la sua arte al servizio di quella bolscevica, utilizzando la poesia come strumento di propaganda, espressione immediata dei fermenti politici e sociali in atto del periodo attraverso quel capovolgimento dei valori sentimentali ed ideologici del passato. La Rivoluzione, così, si svela un concetto più ampio di quello legato alla lotta di classe, e il raggiungimento incruento dell’uguaglianza di tutti i cittadini ridiventa una possibilità concreta.
Decantando i versi del poeta, il messaggio di Terranegra, allora, diventa monito per noi cittadini di non lasciarci sopraffare solo dalle parole; esse esauriscono la propria funzione solo quando dall’astrattezza diventano concretezza. Ogni dettaglio è esaltato dalla presenza “possente” del poeta che dà ad ogni cosa che lo circonda una fisicità esagerata, in questo modo la distanza tra letterale e figurato scompare e le fantasie più sfrenate convivono con un realismo polemico («Che m’importa di Faust […]. Io so che un chiodo nel mio stivale è più raccapricciante della fantasia di Goethe»).
Tuttavia, pur apprezzandone lo sforzo, il soliloquio del giovane attore è monotono, abulico e, in certi momenti, persino grottesco. Tra un verso e l’altro Terranegra interrompe il filo del discorso per entrare in commenti (comici) personali, raccontando aneddoti del proprio vissuto che s’incontrano con quelli della vita del poeta sovietico. Stacchi non presenti nel copione, in contrasto col contesto, ma (evidentemente) voluti dall’attore che strappa piccole risate tra il pubblico, diviso tra appassionati e non.
C’è da dire comunque che la poesia non è un genere apprezzatissimo, né incontra facili consensi tra le folle; ne consegue che assistere ad uno spettacolo di questo tipo si corre il rischio di scontrarsi con un pubblico “scontroso” e apatico.
Se ne consiglia dunque la visione solo ai veri appassionati del genere o a chi voglia sperimentare letture e teatri fuori dagli schemi.
Costanza Carla Iannacone
9 aprile 2016