Recensione dello spettacolo Le ragazze di Via Savoia, 31 in scena al teatro Kopò dal 7 al 10 aprile 2016
"Ma ecco, la differenza d’oggi è soprattutto questa, che le donne che lavorano
non si sentono più sole, sanno di esser tante e d’essere una forza"
Sibilla Aleramo, L'Unità, 29 luglio 1959
Le ragazze di Via Savoia sono quattro, e una l'attrice: i conti non tornano? Tornano e come, e vi spiego come.
Lo spettacolo, diretto da Eugenio Dura, prende ispirazione da un fatto di cronaca realmente avvenuto nella Roma del 1951, un 15 gennaio mattina: centinaia di ragazze sono in lizza per un unico posto di dattilografa, quando la scala su cui attendono il colloquio crolla, ferendone molte e uccidendone una. Un evento drammatico che destò molto scalpore nell'opinione pubblica del tempo, tanto da diventare il soggetto di un film neorealista di Giuseppe De Santis e Cesare Zavattini, Roma ore 11, basato su una indagine di Elio Petri.
Si cercò di capire meglio chi erano queste ragazze, che tanto bene rappresentavano la popolazione femminile italiana del dopoguerra, alle prese con un cammino di emancipazione appena iniziato – il diritto di voto, l'inserimento nel mondo del lavoro, che Ugo Zatterin analizzerà nelle sue inchieste per la RAI – ma ancora sospesa tra la miseria post-bellica e un inimmaginabile boom economico al di là da venire.
Ed è proprio da questo contesto che parte la pièce teatrale, ricostruendo quattro individualità pescate a caso in quella folla di donne – Caterina, Lucia, Rosa, Ester – ognuna con i suoi sogni, le sue paure, le sue idiosincrasie, e soprattutto spinta dal bisogno di lavorare per rendersi indipendenti da situazioni familiari fallimentari o opprimenti.
C'è Ester, la romana del Quadraro simpatica e bonacciona, che ambisce al posto di dattilografa perché è appena stata licenziata alla Facoltà di Lettere (dove con grande orgoglio ricopriva la carica di donna delle pulizie); Caterina la toscana agguerrita e disposta a tutto pur di conquistare il lavoro; Rosa la mamma calabrese impacciata, che vede quell'incarico anche come un timido tentativo di emanciparsi da un marito maschilista; e infine Lucia, l'unica donna non caratterizzata dialettalmente, le cui tristi vicende familiari la hanno costretta in povertà e lontano dal figlio.
Spicca rumorosa da questo quadro l'assenza degli uomini, cui si accenna fugacemente come incapaci di assumersi responsabilità: chi perché troppo bambino, chi perché trincerato dietro il ruolo di padre-padrone, o chi semplicemente perché trascinato via dal proprio egoismo.
Tutte le ragazze sono interpretate da Elisabetta Tulli, che riesce a dare credibilità a ognuno dei personaggi in un modo molto incisivo, e saltando dall'una all'altra ragazza con estrema agilità e leggerezza, a volte immaginando delle divertenti interazioni tra alcune di esse. La caratterizzazione si realizza sia a livello vernacolare (dal romanesco di Ester che risulta molto credibile e convincente, fino al calabrese di Rosa, forse a tratti un poco esitante e non sicuro), sia a livello gestuale (la Tulli ha preparato una mimica, un modo di muoversi specifici per ciascuno dei personaggi). E soprattutto ogni personaggio è caratterizzato da un accessorio visivamente molto potente, come degli spessi occhiali da vista, o una sciarpa, o un cappello rosso, o, infine, delle povere scarpe lise e consunte – tutti presi da un alto cumulo di vestiti e accessori (quasi una citazione in miniatura dell'opera Personnes di Christian Boltanski) che costituisce l'unico elemento presente al centro della scena, tutta nera.
La storia, che poteva originare, visto il soggetto, un'opera triste, pesante, cupa, è invece ribaltata e trasformata in un piccolo e veloce musical, godibilissimo, attraverso cui si palesa non solo tutta l'esperienza musical della Tulli, ma anche l'abilità compositiva di Andrea Calandrini, autore delle musiche, ispirate ai musical americani e italiani, e alle canzoni romanesche. E ovviamente chi si aspetti profonde riflessioni o acrobazie tragiche stia alla larga: a parte qualche risata amara, qualche ombra triste appena accennata, si resta sempre dalle parti della leggerezza, e della commedia.
Resta solo un grande dubbio: perché delle donne agli albori dell'emancipazione, lavorativa e non, ci sembrano ancora figure così attuali e moderne dopo più di cinquant'anni, oggi che l'emancipazione femminile dovrebbe essere ormai una conquista assodata?
Mario Finazzi
12 aprile 2016