Recensione dello spettacolo Yerma andato in scena al Teatro Vascello dal 29 marzo al 3 aprile 2016
Avere un figlio è un atto d’amore oppure un atto di egoismo? Se un figlio è il prodotto di due corpi uniti da un unico sentimento che si è spinti a manifestare e a offrire nei confronti di un’altra persona allora rientriamo nella prima accezione, altrimenti è solo un atto fine a se stesso, vuoto, spento, che non porta da nessuna parte. Sterile.
Un cinese ha detto che esistono tre modi per ottenere l’immortalità, nell’ordine: avere un figlio, piantare un albero e scrivere un libro. Sempre più di frequente si ricorre alla chirurgia estetica, anch’essa un atto finalizzato esclusivamente per il piacere del proprio ego e che – apparentemente – permette di rincorrere l’immortalità.
Il testo di Yerma del poeta e drammaturgo spagnolo, Federico Garcìa Lorca, pur essendo un testo del 1934 – pubblicato solo nel 1937 – riflette (e anticipa) un tema attualissimo, quello del diritto alla procreazione e alla bioetica.
Yerma (che in spagnolo vuol dire sterile, arido), la protagonista del dramma, per volere del padre è stata data in sposa a Giovanni, un uomo abituato a lavorare nei campi. La donna usa molte premure nei confronti del marito, offrendogli del latte prima che esca per andare a lavoro. Il latte serve a fortificarlo, a dargli colore in viso visto che da un po’ l’uomo le appare abbastanza pallido. Giovanni, al contrario, rifiuta le attenzioni della moglie; lui ha bisogno di rimanere asciutto, duro come una roccia. Rimasta sola in casa, Yerma riceve la visita di Maria, una sua cara amica rimasta incinta dopo solo cinque mesi dal matrimonio. A lei Yerma confida il suo timore di essere sterile e, dopo esser stata rincuorata dall’amica – cosa che a Maria riesce non bene – , si mette a cucire una coperta per il neonato cantando e parlando al suo bambino immaginario. Alla visita di Maria succede quella di Victor, pseudo amante di Yerma, che, vedendola intenta nel cucito pensa che ad essere incinta sia lei. Svelatogli l’arcano, Victor le consiglia scherzosamente di continuare a provare e riprovare finché non ne avrà uno anche lei. Subito dopo Yerma va a portare il pranzo al marito nei campi e, nel percorso, fa degli strani incontri: una vecchia che le racconta di aver avuto quattordici figli, una ragazza che ha lasciato il figlioletto da solo in casa e un’altra donna sposata che è felice di non averne. Nel frattempo gli incontri tra Yerma e Victor avvengono sempre più di frequente, arrivando persino ad essere visti dal marito di lei che le proibisce di uscire di casa per le maldicenze che vengono ruffianate in giro. A guardia della donna vengono messe le due cognate che vanno a convivere con lei quando Giovanni è fuori nei campi. Nonostante ciò, Yerma trova il modo di disubbidire al marito fuggendo più volte di casa compiendo, in un cimitero, degli strani riti di fertilità. La vecchia stregona rivela a Yerma di aver conosciuto non solo Giovanni, ma anche suo padre e suo nonno, e tutti loro erano stati incapaci di procreare finché non ne avevano avuto l’obbligo: Giovanni, non essendo costretto a fare un figlio, non ne vorrà mai uno. La vecchia propone quindi a Yerma di lasciarlo e di venire a vivere in casa sua con suo figlio, che lei ritiene un vero uomo e che sarebbe in grado di darle tutti i figli che vuole. Yerma però rifiuta per via del suo forte senso dell’onore e di fedeltà al marito che, avendo spiato l’intera conversazione, e pur ammirando la fedeltà di sua moglie, le impone di lasciar perdere l’idea di diventare madre. La donna comprende a questo punto che il marito non ha mai voluto né vorrà mai avere un bambino, così lo strangola, uccidendo così anche tutte le sue speranze di diventare madre.
La traduzione teatrale del dramma di Lorca, per la regia di Gianluca Merolli e che vede la partecipazione di cinque straordinari interpreti (Elena Arvigo nel ruolo di Yerma, Enzo Curcurù nel ruolo di Victor, Gianluca Merolli nel ruolo di Giovanni, Giulia Maulucci nel ruolo di Maria e Maurizio Rippa come voce fuori campo), è una rappresentazione di fortissimo impatto emotivo, scenico e musicale. I dialoghi soppesano le parole – sono dei veri e propri versi di poesia – e tutto ciò che accompagna lo spettacolo non è messo lì da contorno, ma riveste un preciso e denso significato.
Il sipario si apre con Yerma che si sveglia nel suo giaciglio (solo nel prosieguo del dramma esso sembra assumere le sembianze di un utero materno): l’attrice è completamente nuda, si scoprono tutte le sue forme generose del ventre, del seno, dei fianchi, della cosce e dei glutei, unico elemento questo che stona con tutto il contesto se si considera che nell’antichità una donna dalle rotondità e dalle forme rigogliose simboleggiava fertilità (ma forse è un particolare volutamente desiderato dal regista come a voler evidenziare ancor più il desiderio d Yerma ad essere feconda), poi si veste mentre attorno a lei fanno la loro comparsa anche gli altri attori. E poi c’è la sabbia, elemento ricorrente nel dramma che simboleggia il deserto. La sabbia sgorga dal grembo di Yerma quando Maria le annuncia della nascita di un figlio, la sabbia è presente nel cimitero dove la donna si reca per compiere il rito propiziatorio di fertilità e infine, nell’ultima scena che chiude lo spettacolo, la sabbia cola dall’utero/giaciglio sollevato in alto sul palco dopo che Yerma uccide il marito e urla alle sue genti: «Che cosa volete sapere? Che cosa volete sapere?» mentre sul palcoscenico campeggia a caratteri maiuscoli la scritta HO UCCISO MIO FIGLIO.
Tanti sono i simboli dunque, tanti i significati, le interpretazioni che si vogliono dare al testo di Lorca. La stessa locandina della rivista teatrale raffigura una donna imbruttita dalla cui bocca fuoriesce la sua prole. Sterilità di comunicazione dunque, oltre che fisica? Desideri repressi, inconsci, che sono e restano solo chiacchiere, rancori, odio e cecità. Una chiara allusione al tanto discusso tema del diritto alla genitorialità, come la scelta di inserire nel testo una scena che non rientra nel testo originale del poeta andaluso: quella di Yerma e Giovanni seduti in una sala d’aspetto di un nosocomio con accanto due infermieri con due siringhe pronti a iniettare sperma, ovuli, ormoni per regalare un figlio alla coppia come se fosse un oggetto. E poi ancora il cardinale (simbolo religioso) che richiama ai principi della natura (“Avete bevuto l’acqua santa?”, “I figli li fa chi li deve fare e chi sa farli”). E poi c’è il latte che Yerma offre al marito perché si fortifichi, ma che è una metafora del latte materno con cui si nutre il proprio figlio. Se questo latte non c’è, è inutile cercarlo altrove nei miracoli o nella scienza.
Se non si ha la forza e il coraggio di amare il prossimo, non si ha né il coraggio né la forza di amare neanche se stessi.
Costanza Carla Iannacone
4 aprile 2016