Recensione dello spettacolo Yesus Christo Vogue al Teatro Dell’Orologio dal 16 marzo al 26 marzo 2016
Un dio smette di esserlo se non è rimasto più nessuno a venerarlo, riconoscendolo così come tale: è questa la vera tentazione, ancor più della cosiddetta “ultima”portata sullo schermo da Martin Scorsese molti anni fa, di Cristo. È forse per questo che, a dispetto dei moniti, delle minacce, degli anatemi contenuti nei libri sacri e pronunciati dai pulpiti da più o meno duemila, l’uomo è ancora qui. Nonostante le innumerevoli nefandezze di cui si è macchiato, come ricordano bene gli schermi che disseminano l’ingresso allo spazio dove andrà in scena Yesus Christo Vogue e che mostrano, alternandole, varie scene di atrocità: da quelle estetiche, come bambine truccate che si atteggiano a miss, starlette da reality con labbroni rifatti e palestrati gonfi di steroidi, ai discorsi di Putin che incentiva il capitale materno, passando per varie forme di esecuzione sommaria e corpi smembrati per motivi religiosi e non.
In sala attende un Gesù (Joele Anastasi ) triste, avvilito, sconfitto: accucciato in una nicchia, tenta di dimenticare il suo fallimento bevendo e ingurgitando pasticche. Ha scoperto di non essere onnipotente: l’Umanità è quasi estinta e i due individui rimasti sono “per sempre predisposti all’infelicità e incapaci al suicidio” mentre la Natura, indifferente ai dolori di un dio come a quelli di qualsiasi essere vivente, continua a fare il suo corso. Ad occuparla rimangono soltanto un uomo (Enrico Sortino) e una donna (Federica Carruba Toscano): perfetta antitesi della coppia primigenia formata da Adamo ed Eva, i due sono di fatto confinati in quello che non è più un Paradiso ma un Inferno Terrestre. Senza nemmeno la consolazione residua offerta dalla tentazione di poter mangiare i frutti dell’Albero Della Conoscenza: per loro ci sono solo carcasse di uccelli. L’uomo, Narciso disperato e senza alcuna traccia di bellezza, continua a rimirarsi in una pozza, desiderando annegarvisi. La donna, morsa da una fame atavica vasta come la rabbia che le esplode in petto, rosicchia i resti di un volatile. Lo scenario in cui si muovono, ottimamente creato da Giulio Villaggio, è apocalittico, desolante, ma anche simbolico come dimostra la struttura a croce su cui si muovono i piedi dei protagonisti. Tra loro non c’è tenerezza bensì condivisione forzata di un destino apparentemente eterno, tanto imposto quanto inevitabile vista l’incapacità di morire. Una convivenza che non ha nulla di vivente, mancando una qualsiasi forma di gioia: resta solo la reciproca compagnia, più volte cercata dall’uomo e quasi sempre rifiutata violentemente – ma in realtà i gesti ne denunciano più paura che altro – dalla donna. Quella divinità ormai annichilita che risponde al nome di Gesù, però, non pare in grado di abdicare al suo ruolo e da un aldilà velato inizia a insinuarsi tra i destini dei due, facendo sorgere in loro dubbi, idee, soluzioni, parole, sentimenti che hanno un unico fine: un ultimo figlio. È forse questo il solo e inutile modo di riempire quell’infinito vuoto esistenziale, ma anche di sperare in un inevitabile patricidio e matricidio che li liberi definitivamente. Ma, come il serpente tentò la prima coppia, non sta forse Gesù - detto non a caso figlio dell’uomo - tentando di ristabilire il suo primato tornando, sacrificio compreso, a essere ciò che era?
Sono tanti i temi e i richiami che Yesus Christo Vogue dissemina tra i dialoghi, evoca nei gesti e suscita negli spettatori: purtroppo la materia drammaturgica non sembra capace di contenerli tutti. Il linguaggio divino, tra toni tragici e rielaborazioni bibliche, cade spesso nel grottesco involontario come quel Gesù al microfono che si struscia proclamando “Riuscite a vedere la mia luce? Siete voi ad aver riposto sul mio capo la corona che indosso. Avete ancora il dono di ammirare nel gesto della mia mano che carezza il mio corpo, un motivo in più per essere presenti al mondo? Io e voi vaghiamo come essere congelati, ed è la vostra lotta che eternamente mi riscalda. Così io mi proclamerò ancora una volta Dio del mondo”. A cui fa da contraltare una coppia che, nonostante lo straordinario dispendio fisico ed emotivo, impedisce in chi guarda un qualsiasi barlume di immedesimazione o compassione, rinchiusa in una serie di immagini e dialoghi di maniera, come "L’hai prosciugata tu tutta quell’acqua per salvarmi. E ti sembra di annegare dentro te stessa" o "Il principe che ha bussato alla mia porta per rendermi davvero la sposa più fedele è arrivato morto", il cui culmine è una citazione visiva della Pietà Vaticana di Michelangelo con una spruzzata di Cimone e Pero, padre e figlia la cui vicenda è divenuta sinonimo di misericordia. Paradossalmente, la trama viene resa ancora meno credibile dalla suddivisione in capitoli denominati “preghiera/bestemmia” “flagellazione” o “crocifissione”: la sensazione è quella di un ulteriore sforzo per tenere insieme il tema più che un suo svolgimento. E alla fine dello spettacolo l’impressione è che la compagnia Vuccirìa Teatro abbia peccato di presunzione nell’aver scelto di trattare un materiale così incandescente senza mani sufficientemente allenate a questo fuoco: perché se è vero che “sarete come Dio” è il primo desiderio umano, Yesus Christo Vogue lo ha nominato invano.
Cristian Pandolfino
25 marzo 2015