Martedì, 26 Novembre 2024
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Tra i tanti volti di Medea non è facile incarnarne il più umano

Recensione dello spettacolo Medea al Teatro Ghione dal 15 marzo al 24 marzo 2016
Quella disegnata Jean Anouilh è una Medea tragicamente lacerata e incredibilmente umana: non è più la giovinetta innamorata e confusa che ci ha tramandato Diodoro Siculo, ma nemmeno la risoluta belva assetata di vendetta o quel demonio mosso unicamente dalle proprie passioni che Euripide e Seneca hanno contribuito a rendere immortale. È certamente distante dalla potente maga di Ovidio e dalla vittima di intrighi a opera delle divinità di Draconzio, mentre è commovente vicina alla fanciulla tratteggiata da Apollonio Rodio: come lei è scossa fin nelle fondamenta da un sentimento che non le dà tregua nemmeno per un attimo, esacerbato da un desiderio totalizzante che la spinge irreparabilmente verso il sacrificio di tutto ciò che possiede purché non sia Giasone.

La vergine figlia di re è, dunque, ormai divenuta una donna segnata dal dolore, dalle infinite umiliazioni dell’essere una straniera in terra straniera e dal peso di una lunga sequela di feroci delitti compiuti in nome di quel volto che, da lì a poco, le sarà proibito per sempre di rivedere. Le fa da interlocutrice e compagna di sventure la nutrice che, grazie a un ruolo ben più ampio rispetto ad altre versioni, si sostituisce al coro e tenta inutilmente di farla ragionare, mostrandole tutta la miseria della loro condizione attuale rispetto al glorioso passato, pregandola - ma più spesso supplicandola inutilmente - di cogliere quell’opportunità di ricominciare tutto daccapo che l’esilio le concederebbe. Anche Giasone gode, in quest’opera, di una diversa statura rispetto alla narrazione classica: solitamente ricordato per la sua passività di fronte agli eventi, è celebre unicamente per una impresa la cui riuscita sarebbe stata impossibile senza l’aiuto di una donna. La stessa donna che l’eroe non si farà scrupolo di abbandonare per un matrimonio migliore e la prospettiva di divenire re di Corinto. Nel testo di Anouilh, invece, Giasone sceglie ben altro che un trono: egli vuole mettere fine a quel caos che lo circonda, non subire più la responsabilità di quella continua smania che pare animare la compagna di così tanti, troppi, anni e desidera condurre una esistenza finalmente più pacata, misurata, serena. Tutto ciò significa scegliere Glauce, in aperta antitesi con quella che finora è stata la sua vita accanto a Medea: non rinnega la felicità passata, l’ardore degli accoppiamenti, il piacere smodato che li ha legati. Solo, non ne può più. Potrà mai, però, una donna come Medea accettare tale cambiamento?

Portare in scena un’opera come Medea di Jean Anouilh è certamente una decisione importante e per cui gioire, considerando la bellezza del testo e la psicologia estremamente attuale dei protagonisti : purtroppo, però, gli attori scelti non sembrano sempre all’altezza del ruolo cui sono stati chiamati, così come alcune soluzioni registiche. Barbara De Rossi (Medea) ha una fisicità perfetta per il personaggio tragico che deve trasporre sul palcoscenico, ma certe intonazioni didascaliche, frasi non sempre pronunciate correttamente e un paio di dimenticanze di troppo non le permettono di essere credibile fino in fondo. Molto più a fuoco risulta l’interpretazione di Tatiana Winteler (Nutrice), i cui gesti e i cui repentini cambi di umore ben si sposano con un ruolo così delicato e multiforme, così come Fabio Fiori risulta ottimo nel pur brevissimo ruolo di messaggero. Lasciano, invece, piuttosto a desiderare le prove di Lorenzo Costa (Creonte) e, soprattutto, dello stesso regista Francesco Branchetti (Giasone): il suo è un personaggio particolarmente complesso non solo in quanto oggetto del desiderio assoluto di Medea ma anche per quella nuova dignità che l’autore intendeva riservargli. La scelta di alternare continuamente sussurri e sibili a scoppi di rabbia colorati da afonia non risulta felice, così come quel perenne agitarsi e puntare gli indici ora verso sé, ora verso il mondo, ora verso Medea. Una decisione che si rivela ancor più discutibile al termine dell’ultimo confronto tra i due vecchi amanti, scritto magistralmente da Anouilh, che strappa dalle labbra della donna quello straziante “Tu parli con calma, Giasone, e dici parole terribili. Come sei sicuro di te. Come sei forte.” A questi difetti vistosi si aggiungono i tagli non sempre puntuali al commento sonoro firmato da Pino Cangialosi, che tanta parte ha in questa specifica rappresentazione, mentre di contro la scena e gli abiti curati da Clara Surro sono impeccabili.

Si ha, insomma, la sensazione che un testo come quello di Jean Anouilh, con tutta la modernità e il coraggio che ne attraversano temi e scrittura, avrebbe forse avuto bisogno di meno parossismo nella verbalizzazione dei dialoghi e di una minore enfasi in certi gesti e nello sforzo della deformazione dei volti. Il dramma di Medea, qui, è più umano che mai: al punto che per lei non ci sarà alcun carro alato, né salvezza.

 

Cristian Pandlfino
20 marzo 2016

 

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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