Recensione dello spettacolo Generazioni, in scena al Teatro Planet all'interno del DOIT Festival 2016 il 15 e 16 marzo 2016
"Qualche mese dopo tornò Francisco el Hombre, un vecchio giramondo di quasi 200 anni che passava frequentemente da Macondo divulgando le canzoni che lui stesso componeva. In quelle canzoni, Francisco el Hombre riferiva con particolari minuziosi le notizie occorse nei paesi del suo itinerario, da Manaure fino ai confini della palude, di modo che se qualcuno aveva un messaggio da mandare o un avvenimentoo da divulgare, gli pagava due centavos per farglielo includere nel repertorio.
Fu in questo modo che Ursula fu informata della morte di sua madre, per puro caso, una sera in cui ascoltava le canzoni con la speranza che dicessero qualcosa di suo figlio José Arcadio. Francisco el Hombre, così chiamato perché aveva battuto il diavolo in una gara di improvvisazione di canzoni, e il cui vero nome nessuno seppe mai [...]"
(Cent'anni di solitudine, Gabriel García Márquez, 1967)
Fermandosi alle apparenze che può evocare il titolo questo spettacolo si potrebbe pensare alla solita storia di conflitti generazionali invalicabili e controversi... alla prova dei fatti, invece, il testo e la messa in scena di Alessandra Cappucini supera questo ormai logoro schema preconfezionato (e volendo anche di incerto successo) e addirittura superandolo mette a confronto le tre generazioni nonna, mamma e nipote nei loro rispettivi background storici e culturali.
La regia di Mario Umberto Carosi è essenziale; con pochi elementi scenici chiave riesce a costruire vere e proprio architetture fisiche all'interno delle quali si muove una narrazione realistica (che denota un attenta studio delle fonti storiche) e a tratti autobiografica, sempre attenta agli aspetti emotivi delle singole protagoniste e ai piccoli dettagli che impreziosiscono ogni racconto.
Tre donne figlie della loro epoca, forti e al contempo vulnerabili che a loro modo (come tutti quanti noi) affrontano i problemi di tutti i giorni (la guerra, la rivoluzione culturale, la disoccupazione e l'involuzione sociale) alla ricerca di quella poesia intrinseca di ogni cosa che sempre più dal finire della Seconda Guerra Mondiale ad oggi si è andata perdendo.
E' interessante notare come per una volta siano stati analizzati i punti di contatto e non i pretesti di scontro tra generazioni attraverso una forma di narrazione che attualizza la figura del cantastorie e, ritornando alla normale attività della Compagnia, da nuova vita alla Commedia (umana) dell'Arte.
Uno spettacolo interessante su più fronti che dimostra come attraverso il lavoro di ricerca è possibile rinnovare forme e modi teatrali ottenendo risultati apprezzabili senza fossilizzarsi sul consolido e dilagante teatro di "denuncia" (ha soppiantato anche lo sperimentale!) che spesso denuncia soltanto l'incapacità e la superficialità (viene da pensare che forse dovremmo chiamarlo teatro di "Propaganda") di chi lo fa.
Fabio Montemurro
20 marzo 2016