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Neanche con un fiore: la difficoltà di interpretare il dramma

Recensione dello spettacolo Neanche con un fiore, in scena al Teatro della Visitazione il 9 e 10 marzo 2016

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Uno scenario interessante quello del teatro della Visitazione. Un posto poco visibile che all’interno serba uno spazio meravigliosamente fruibile, che potrebbe ancor più traboccare di creatività e essere utilizzato, così come altri numerosi posti romani, per vari e numerosi progetti. All’interno di questo cantiere teatrale ben fatto, è andato in scena un lavoro di importante intento sociale. “Quando ero piccola, mio padre mi diceva sempre: Ricorda, le donne non si toccano neanche con un fiore" e Neanche con un fiore è il titolo dello spettacolo che si è andati ad inscenare.

 

La tematica del femminicidio, della violenza sulle donne è ovviamente un tema emotivamente impegnativo, così come impegnativo è il realizzarlo artisticamente. In una mescolanza di atti recitativi e danza si consumano i racconti di queste donne vittime della violenza, spesso casalinga, che ha portato loro alla morte. Con semplicità si affronta una tematica che rischierebbe in altro modo di essere solo un ennesimo racconto di cronaca, ma se l’intento è propositivo e azzeccato, non sempre lo spettacolo riesce a offrire la giusta espressività e il giusto merito all’oggetto e ai soggetti della narrazione. Si alternano storie, donne e voci che raccontano le loro esperienze, cercando di indagare a volte sugli atti compiuti dai compagni, o semplicemente mostrando i fatti e la sequenza in cui essi si sono svolti. Attimi commoventi, duri, crampi allo stomaco ad ogni racconto, eppure le dinamiche non rendono totalmente, qualcosa inceppa la narrazione e il suo volersi amalgamare agli attimi danzati. Questi ultimi sono, più che coreografie, dei veri e propri atti performativi. Si mimano lacrime, schiaffi, bocche che si autocensurano, bocche che vengono cucite, respiri e speranze bloccate, camminate impaurite, scatti e gesti improvvisi. Stacchi precisi e netti, che trasmettono direttamente il messaggio, molto più forse di certi momenti conversati che assumono un tono stucchevole nel processo che voleva invogliare il pubblico alla riflessione sui fatti. Qualche intoppo anche nel corpo di ballo, non sempre complice e amalgamato, ma complessivamente l’insieme dei momenti è riuscito nell’intento comunicativo. Fra passi di danza e monologhi, si inseriscono le lettere di familiari, fratelli, padri e madri. Speranze stroncate, voci che parlano di rispetto e amore. Testimonianze che proiettano nella realtà quei drammi che sul palco sono solo rappresentazione. Fra vesti bianche continua il carosello tragico, attimi di lirismo, sguardi e silenzi carichi, trattenuti da un qualcosa che non fa esplodere lo spettacolo. Linguaggi taglienti, con punte di ironia amara, messaggi seminati qui e lì come monito: “Se incontri la violenza impara a riconoscerla, impara a chiedere aiuto”. La voglia di giustizia e riscatto si avverte, aleggia, si da poco spazio però alla comprensione di un fenomeno dibattuto e setacciato. Un fenomeno che varie realtà dal basso affrontano, sportelli antiviolenza, circuiti femministi, donne consapevoli che in una rete di sorellanza e determinazione lanciano slogan come: “Lo stupratore non è un malato, ma è figlio sano del patriarcato”. La passione che si è voluta investire nello spettacolo resta quindi a un livello base, che coltivato, così come le donne che assumono maggior consapevolezza, potrebbe permettere a quel fiore di sbocciare.

Erika Cofone
17 marzo 2016

 

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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