Recensione dello spettacolo Dionysus. Il dio nato due volte, in scena al Teatro Vascello dal 4 al 13 marzo 2016.
«L'uomo dionisiaco assomiglia ad Amleto: entrambi hanno gettato una volta uno sguardo vero nell'essenza delle cose, hanno conosciuto.»
Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia
Daniele Salvo ha una grande esperienza nella messa in scena di tragedie greche e shakespeariane, che emerge tutta nel suo Dionysus, tratto dalle Baccanti di Euripide.
La storia la conoscete tutti: Dioniso, dio dell'irrazionale, del vino e del piacere – che poi diventò Bacco nella Roma antica – non viene riconosciuto e rispettato da alcuni tebani, che ne mettono in dubbio la natura divina (Dioniso era figlio di Zeus). A questo punto l'ira del dio si scatena sul re di Tebe, Penteo, che finirà dilaniato dalle menadi, e da sua madre, dopo che tutte le donne tebane saranno state indotte in una sorta di trance estatica e orgiastica.
La storia procede spedita, essenzialmente suddivisa tra i protagonisti principali e il gruppo di 8 menadi, a fare sia da coro, sia da veicolo di un'atmosfera inquietante e vagamente horror (i toni horror sono anche ricercati attraverso effetti speciali quasi splatter).
Daniele Salvo arricchisce Dioniso con una vasta gamma di registri vocali, arrivando sino a una voce sinistra e gutturale, e sfoggia una bellissima espressione tra il folle sorriso e il ghigno che ricorda un poco il Joker interpretato dal mai troppo compianto Hedge Ledger. Mentre più classica e piana appare la recitazione della Agave di Manuela Kusterman, dai toni tragici particolarmente enfatizzati.
Da un lato Dionysus sembra aderire in maniera precisa allo spirito classico della tragedia, senza grandi velleità di attualizzazione (nonostante gli intenti dichiarati); dall'altro però, ove qualche timido tentativo di personalizzazione in chiave moderna viene accennato, finisce per risultare buffo, quando non fastidioso. È il caso ad esempio di certe diapositive/filmati proiettati su un velario che nasconde le quinte (ma che in altri casi viene utilizzato per creare effetti molto suggestivi, con le menadi in trasparenza che sembrano apparire da un buio mitico e senza tempo). Oppure le letture dei momenti orgiastici, troppo ammiccanti alle immagini di sabba demoniaci, o presentate ruffianamente come gangbang saffiche.
E a proposito di diavoli, è interessante la interpretazione di Dioniso come angelo nero, luciferino e diabolico, anche se talvolta a rischio caricatura (in un punto Dioniso si muove come Piero Pelù ai tempi di El Diablo!).
Bella invece la scena, così scarna, aperta sui lati (e talvolta per brevi istanti anche sul fondo) delle quinte, senza nascondere il ventre e i meccanismi del teatro.
I costumi sono in parte classici, in parte attingono a quel campionario di rivisitazioni moderne di cappotti militari e spolverini di pelle alla Matrix, ormai immancabili in ogni operazione di rinfresco di pezzi di teatro classici, e che ricordano moltissimo certe versioni shakespeariane in voga nei decenni passati.
Notevoli invece i costumi delle menadi/baccanti, dai capelli crespi e bianchi, sormontati da uno o due paia di corna, una via di mezzo tra streghe e demoni.
Proprio il coro delle baccanti racchiude in sé la novità più grande e impressionante del pezzo – su cui forse Salvo avrebbe potuto, e dovuto, insistere maggiormente – e cioè l'uso di alcune ricerche di psicoacustica (ovvero sugli effetti emozionali di suoni e canti) e foniatria per ritrovare i suoni originari di canti e litanie degli stati di possessione degli antichi culti misterici dionisiaci, attraverso una sorta di patchwork etno-sonoro che va dai ritmi stridenti dei beduini berberi ai mantra tibetani.
All'impatto sonoro corrisponde la studiata gestualità, disordinata e sincopata, delle baccanti in stato di possessione, che però non riesce a evitare di farle sembrare più simili a degli zombie che a donne in preda del furor panico divino.
Mario Finazzi
11 marzo 2016