Recensione dello spettacolo La quarta unità, in scena al Teatro Planet il 10 e 11 marzo all’interno del DOIT Festival 2016
Viviamo un’epoca in cui il consumismo è indispensabile per la nostra libertà. La gente è disposta a tutto pur di soddisfare i propri bisogni, anche se questi hanno un prezzo molto alto da pagare. Conviviamo con convinzioni erronee del tipo meglio apparire che essere (circondandoci di cose futili), la felicità è assaporare tutto quello che esiste al mondo (anche se questa comporta spingersi oltre i propri limiti), soldi uguale potere. E poi c’è la comunicazione, la più vasta forma di libertà di espressione. Il quarto potere.
Sia il consumismo che la libertà sono i due elementi chiavi dello spettacolo La quarta unità, dramma che si inserisce all’interno della rassegna DOIT Festival giunto quest’anno alla seconda edizione.
Dopo un periodo di formazione guidato dal loro rigido supervisore e motivatore (Vincenzo Tosetto), Stan (Jacopo Giacomoni) e Franz (Marco Tonino) diventano centralinisti di un’azienda. Contattano clienti, sponsorizzano nuovi prodotti, offrono pacchetti di offerte, il tutto sottostando a delle regole ben precise. Gli operatori di call center e i clienti non hanno un nome, all’interno dell’azienda diventano dei numeri, e questo perverso meccanismo fa sì che anche chi si trova all’altro capo del telefono diventi un numero. Sarà proprio la cliente 212 – il suo vero nome è Rebecca – la vittima che pagherà il pacchetto più costoso.
La durata del dramma è di 45 minuti e sono minuti molto densi. In questo (seppur) breve lasso di tempo si colgono le variegate – e drammatiche – sfumature della società: il fenomeno della disoccupazione, l’incomunicabilità (reso in maniera molto estrema dal fatto che ogni cosa è meccanizzata: si lavora tanto coi computer, telefoni, cellulari e dell’interlocutore si conosce solo la voce e, talvolta, nemmeno quella), il voler comprare a tutti i costi la libertà di un individuo offrendo promozioni, pacchetti di prodotti di qualsiasi genere, pacchetti che comprendono anche emozioni, innescare trappole mentali e comportamentali che, di fatto, limitano la libertà di scelta e di pensare arrivando a lambire il paradosso. Questo elemento della costrizione è reso molto significativo all’interno della rappresentazione. I centralinisti operano all’interno dell’azienda in spazi stretti sino a sfiorare livelli di claustrofobia, collocati in stanze disposte ai lati di un lungo corridoio che riporta alla memoria similitudini con diversi film di Dario Argento (Profondo Rosso), Stanley Kubrick (Shining), Frank Darabont (Il miglio verde).
Uno spettacolo che fa riflettere insomma su quanto tutto è dato per scontato, persino il libero arbitrio: c’è sempre qualcuno dietro le spalle (o dietro il computer o il telefono) pronto a minare la nostra libertà di pensiero, seducendo con le parole o con cose materiali fantasticando con le nostre illusioni e desideri, ci sarà sempre qualcosa o qualcuno pronto a spingerci al consumo (anche questo altro paradosso: far spendere denaro, con la scusa del risparmio, in tempo di crisi) o a seguire una ideologia politica o religiosa piuttosto che un’altra.
Grande merito quindi va riconosciuto a questi ragazzi che sono stati in grado di portare a teatro temi di così grande attualità, e di averli saputi trattare con delicatezza e profondità ponendo a base della cultura teatrale ciò che più le si confà: la riflessione.
Perché il teatro è soprattutto civiltà.
Costanza Carla Iannacone
11 marzo 2016