Recensione dello spettacolo Edipus, in scena al Teatro Piccolo Eliseo dal 9 marzo al 20 marzo 2016
C’è quel capocomico che riposa il suo stanco e grosso corpo, sfinito da anni di repliche e appesantito da una vita girovaga: è talmente stanco che ha persino dimenticato di togliersi il naso rosso da clown, quando l’accendersi delle luci lo coglie di soprassalto e lo fa sussultare da quella grande sedia con dietro scritto “fragile”. Non è rimasto più nessuno con lui: gli altri attori hanno scelto di piegarsi a una esistenza più regolare, borghese, forse persino più felice. Ma lui no: lui insiste con il mettere in scena, anche da solo, lo spettacolo di stasera. Come tutte le sere.
E non importa se il garzone non apparirà neppure, nonostante sia più e più volte chiamato per aiutarlo a cambiarsi d’abito, se l’attrice che doveva interpretare Giocasta ha preferito sistemarsi definitivamente con un falegname e se quello che avrebbe dovuto vestire i panni di Laio è finito a fare il travestito in una compagnia di rivista e cabaret: anche questa volta, come tutte le volte, si reciterà l’”Edipus”. Interpreterà lui tutti i ruoli che la tragedia richiede: in un insensato eppure commovente atto d’amore verso il teatro e verso la sua componente reazionaria da sempre in lotta con quel potere dominante che vuol omologare. E nonostante le infinite difficoltà pratiche e i gli eterni sacrifici che il mestiere di attore e commediante implicano.
La terza ed ultima parte della Trilogia degli Scarrozzanti, scritta nel 1977 da Giovanni Testori, stavolta diretta da Leo Muscato e recitata da Eugenio Allegri è tutta qui: un testo che inventa e sventra il linguaggio, creando un idioma da volgo che attinge a piene mani dal latino, dal francese, dall’italiano e dai più vari dialetti, per l’occasione soprattutto il piemontese; una regia che svela e nasconde il trucco del teatro grazie alla struggente complicità di una tenda trasparente e alla rigidità vitale di una serie di appendiabiti; una voce e una fisicità in grado di presentificare l’eterno mito di quell’Edipo in guerra prima con la sorte, poi con il padre e, infine, con se stesso sottraendolo alla grandiosità classica senza nulla perdere del senso del tragico, anche grazie all’attualizzazione di cui godono le figure di Laio e Giocasta.
Un turbine di parole e neologismi già vecchi, motti e imprecazioni, invenzioni e soluzioni, volgarità e tenerezze, pause e nostalgia, riflessioni, irrealtà e malinconia. Ma, soprattutto, la strenua difesa della propria arte nonostante gli anatemi di chi comanda, i limiti del proprio corpo e i giudizi del pubblico. Quello stesso pubblico per cui si recita, anche se si potrebbe - e si vorrebbe - continuare a farlo persino se non ci fosse. O, peggio, si fosse addormentato.
Cristian Pandolfino
11 marzo 2016