Recensione dello spettacolo I Duellanti in scena al Teatro Quirino dal 23 febbraio al 6 marzo 2016
«I Duellanti è un lavoro sull’avversario e sul diventare adulti» scrive Francesco Niccolini nelle note di drammaturgia, e la massima non potrebbe essere più chiara e più esemplificativa.
Assistendo allo spettacolo, a primo impatto, quel che si evidenzia all’occhio dello spettatore è la linea di demarcazione che esiste tra i due protagonisti del testo di Joseph Conrad: i due sfidanti sono quanto di più diverso e opposto esiste al mondo, ma nel prosieguo della storia si scoprirà che i duellanti, invero, non sono altro che la stessa faccia di una medaglia.
Nell’anno in cui Napoleone diventa imperatore, al tenente Armand D’Hubert (Alessio Boni) è affidato il compito di comunicare lo stato d’arresto ad un suo pari grado, Gabriel Feraud (Marcello Prayer). Il motivo risiede nel ferimento del nipote del sindaco di Strasburgo in un duello da parte di quest’ultimo che, disturbato dal collega durante un incontro con una dama del luogo, costringe D’Hubert, col pretesto dell’onore, a battersi con lui. Cominciano così un a serie di duelli tra i due ufficiali, ambedue ussari, che li accompagneranno durante tutto il corso della loro carriera senza che nessuno sappia il perché di questo odio così profondo. Proprio per il mistero che riescono a conservare, i due diventano famosissimi in tutto l’esercito napoleonico. Negli anni a venire i due ufficiali, le cui vicende si intrecceranno con quelle di Napoleone e della Francia, si sfideranno ogni volta che le circostanze lo permettono; non sfuggirà a tale consuetudine neppure l’incontro avvenuto durante la ritirata dalla Russia; la loro eroica fedeltà alla loro sfida reciproca li accompagnerà per vent’anni, fino al duello decisivo.
Tre sono le chiavi di lettura che offre il testo di Joseph Conrad, rappresentato efficacemente dall’interpretazione di Alessio Boni e Marcello Prayer. La prima è quella più semplice: l’avversario più feroce è quello che vive dentro di noi di cui non riusciamo a liberarcene per il semplice fatto che siamo noi a non voler liberarcene. In ogni individuo convive il bene e il male, le lotte quotidiane sono le lotte improbe tra queste due forze che governano nel nostro animo e che ci spingono a compiere atti talvolta inspiegabili, un po’ come se fossimo una sorta di Dottor Jekyll e Mister Hyde: senza l’uno, l’altro non esiste. «Nel deserto c’è pace perché non c’è vita» afferma ad un certo punto D’Hubert, come a dire che non c’è gusto rimanere fermi senza avere qualcosa o qualcuno contro cui combattere, che sia esso la guerra, un ideale, un sogno o persino i mostri che coabitano all’interno di ognuno di noi. È questa la seconda chiave di lettura: non ha senso vivere se non ci si batte per i propri desideri. Talvolta siamo costretti a lottare per una promozione sul campo di lavoro, perché ci vengano riconosciuti dei diritti, per affermare il nostro valore in campo sociale e personale; non sempre le cose possono riuscire, ma l’importante è combattere senza mai chinare la testa.
E poi c’è una terza chiave di lettura: ed è quella di assistere ad un’opera che narra di un mondo in rapida estinzione e che, attraverso gli incubi e ossessioni dei due duellanti, accompagnano la cultura occidentale fino allo sfacelo della seconda guerra mondiale. La stessa umiliazione che subisce Feraud (prima condannato al patibolo e successivamente graziato per intercessione di D’Hubert) nell’ultimo duello, fronteggiandosi con le pistole assieme al rivale, è sintomo della fine dell’epopea napoleonica, e una chiara metafora della disgregazione della società moderna in cui viviamo.
Costanza Carla Iannacone
5 marzo 2016