Recensione dello spettacolo Kensington Gardens, in scena al teatro Sala Uno dal 25 febbraio al 6 marzo 2016
Al di là dello spazio e del tempo, eppure totalmente immerso nelle tematiche di questo spazio e questo tempo. Cambiano i connotati scenici e di luogo, ma rimane forte il senso di straniamento e smarrimento di quell'uomo moderno, anti-eroe per eccellenza, che oscilla sospeso nell'imprecisione indefinita delle sue scelte: perde chi sceglie o chi sceglie, in fondo, è perchè ha già perso?
Ecco, quindi come Kensington Gardens, terza opera di Giancarlo Nicoletti, che segue la linea tracciata dai precedenti capitoli #salvobuonfine e Festa della Repubblica, si presenta al suo pubblico. Ambientandola nella suggestiva cornice della cripta della Scala Santa a San Giovanni, all'interno del teatro Studio Uno, Nicoletti smuove le corde dell'animo perforando e sovrastando del tutto la "quarta parete" e coinvolgendo le coscienze e gli animi della platea. Conflitti generazionali, rapporto genitori-figli, successo ad ogni costo e sacralità dell'arte e ancora tematiche sociali come l'identità territoriale, l'integrazione, la xenofobia, il tradimento, la fragilità dell'animo umano: rientrano tutti in quel delizioso quanto sconvolgente e sagace mix che afferma, nuovamente, quanto il regista sia un attento conoscitore e scrutatore mai retorico delle dinamiche dell'epoca contemporanea.
In scena dal 25 febbraio al 6 marzo, quest'atto finale si avvale dello stesso nucleo attoriale dei precedenti lavori, fra cui Valentina Perrella, Alessandro Giova, Riccardo Morgante e Cristina Todaro, insieme a Eleonora De Luca e Francesco Soleti ai quali si uniscono Annalisa Cucchiara e Luca Notari.
Kensington Gardens rappresenta il canto del cigno della “Trilogia del Contemporaneo” e riassume la capacità di mettere in scena le difficoltà, i turbamenti, le sfide e le contraddizioni non solo di una, ma di diverse generazioni, confuse da uno scenario sociale che ogni giorno le schiaccia e le minaccia tra illusioni disilluse di successo e gloria effimera e reale paura dell'altro e di ciò che le è estraneo: sul palco salgono non solo i personaggi ma i disagi di un'umanità contemporanea, frastornata e in cerca di una definizione, impaurita di crescere e posta in un mondo da cui si vorrebbe fuggire, ma che invischia nella sua ostentata quanto flebile vanagloria, luccicante di una luce propria ormai sempre più opaca. Una missione sicuramente non facile ed un compito arduo, quello che Nicoletti è riuscito a portare a termine con un ottimo successo.
Londra: un futuro, prossimo o remoto, e un partito xenofobo al governo. Una legge che espelle tutti i cittadini non inglesi dal suolo britannico, squadristi per le strade che sparano a vista sugli immigrati. Sei italiani ottengono dalla Corona di evitare il rimpatrio, isolati in una villa del parco di Kensington, in attesa di grazia. Il figlio e la sorella di una celebre cantante in conflitto con la crisi di mezza età e col suo compagno più giovane ed arrivista. Un esame di cittadinanza per scongiurare l’estradizione, un chimico, sua moglie. Il tutto tra le sinfonie armoniche sussurrate dalle corde emotive dei pianoforti, canzoni d’autore e musica, sfondo e cornice ma anche punto di aggregazione e focale di tutta la storia. La Londra fumosa dei camini e dei red bricks scompare tra le nebbie dei confini, della xenofobia cavalcante e di una caccia al diverso che porta l'altro, il distante da sè, ad errare senza fissa dimora: il contrasto netto tra l'esterno e l'interno, reso alla perfezione dai giardini di Kensington che recintano la "zona franca" dell'abitazione, evidenzia tutto il dramma di un'umanità bandita prima di tutto da se stessa e confinata nei recinti dell'animo.
Spunti passati, dai grandi maestri o da contemporanei eccellenti non mancano: da "Sei personaggi in cerca d'autore" ad "Aspettando Godot", fino alle opere cinematografiche quali "Magnifica presenza". Tutto lo spettacolo, infatti, denota un saliscendi dal livello teatrale a quello televisivo, dal racconto scenico a quello del reality show, dalla partecipazione drammatica e catartica al coinvolgimento dello spettatore che si lascia trascinare in questo fluire di un reale rituale tragicomico che ha i riflettori accesi su tutta una serie di paradossi, talmente vissuti e reali da sembrare iperbolici ed inaspettati. I personaggi di "Kensington Gardens", ciascuno ben tratteggiato e ben caratterizzato nei loro virtuosismi e nella loro percezione di vita, arte e filosofia, trasportano con immediatezza e senza mezzi termini la vita reale sul palcoscenico. Nei caratteri e nei quadri biografici che i personaggi portano con loro sulla scena, vi è un tentativo di rilettura contemporanea dei protagonisti de Il Gabbiano di Cechov: la presenza di un gruppo di persone che costituisce un corpo unico di frustrazioni ed esasperazioni, la tipica situazione di costrizione fisica in un contesto spaziale delimitato (come nella villa de “Il gabbiano”) l'apparente inattività in cui sono immersi i personaggi; le anime vorrebbero agire, vivere e vagare ma sono allo stesso tempo frenate e ognuno di loro finisce per essere l'epicentro di un mondo emozionale di paure, ansie e nevrosi, un universo che si oppone a quello reale, nel quale, seppur abbacinati e sfiorati dalla fama e dal successo, non hanno e non trovano posto. In Kensigton, infatti, si riassume alla perfezione questa sensazione di consapevolezza di “non avere un posto nel mondo”, fusa nella riflessione, perno delle opere di Nicoletti, sulla vacuità ed inutilità delle certezze umane.
Federico Cirillo
6 marzo 2016