#Recensione dello spettacolo Madame Bovary in scena al Piccolo Eliseo dal 24 febbraio al 6 marzo 2016
Leggendo Madame Bovary, il capolavoro di Gustave Flaubert del 1856, ciò che resta scolpito nella memoria è la condizione femminile della protagonista, una gabbia mentale quanto fisica tanto da vedere nell’uomo non solo il problema, ma anche la soluzione di tutti i problemi.
La trasposizione teatrale del romanzo, in scena in questi giorni al Piccolo Eliseo per la regia di Andrea Baracco, riproduce fedelmente l’opera dello scrittore francese, avvalendosi dell’interpretazione di otto magnifici attori che sanno incarnare alla perfezione i personaggi che animano lo scenario.
A dar voce alle passioni, frustrazioni, romanticherie, desideri e aspirazioni di Emma Bovary è una sorprendente e stupefacente Lucia Lavia. Assistendo alla sua performance, sin dalle prime battute, la sensazione è quella di vedere nascere, crescere, vivere e morire la protagonista attraverso il corpo e la voce dell’attrice che spende tutta se stessa sul palcoscenico. Godere dello spettacolo è godere assieme a Madame Bovary, soffrirlo è soffrire con Emma, urlare, piangere, ridere, ballare e dimenarsi è sentirlo sulla propria pelle insieme a Emma Bovary; nell’aria c’è un filo sottile che fa vibrare le corde dell’anima della protagonista e si spinge fino a toccare il bagaglio d’emozioni del pubblico come un pugno nello stomaco.
La pièce si apre con la voce fuori campo della donna che introduce allo spettacolo con questa considerazione: “Non conosci mai veramente un uomo finché non ci vai a letto, non conosci mai veramente una donna, neanche se quella donna sei te stessa”. Emma (Lucia Lavia) conosce Charles Bovary (Lino Musella), un mediocre medico di campagna che viene a curare il padre a causa di una frattura alla gamba che si è procurato arrampicandosi su un albero. Charles viene da famiglia benestante ed è un uomo perbene, ma anche noioso e maldestro. Emma impiega gran parte del suo tempo ricamando e leggendo romanzi che la inducono a vagheggiare in fantasie romantiche e desideri di lusso. Tempo dopo i due si sposano ma, ben presto, la donna scopre che la vita di tutti i giorni è ben lontana da quella tanto agognata. Emma comincia così a covare le prime frustrazioni e quando scopre di essere incinta spera che il bimbo che porta in grembo sia maschio.
La delusione accresce quando invece nasce una bambina, Berthe (rappresentata da una bambola di pezza e manovrata da Roberta Zanardo). Per Emma è l’ennesima delusione, vedendo nella figlia altro se non un doppione di se stessa, un maschio invece avrebbe riscattato il suo desiderio di emancipazione che alle donne, a quel tempo, non veniva minimamente concessa. Emma, quindi, usa Berthe solo per riempire i suoi vuoti, quando altre soluzioni si riveleranno fallimentari come, ad esempio, il tentativo di fare del nome del marito un passe-partout che le permetterà di accedere a un gradino più altro della scala sociale (“Avere un nome è come avere in mano delle chiavi: ti permettono di aprire tutte le porte”) costringendolo, per affermarlo professionalmente, ad una complicata operazione chirurgica sul piede caprino di un servo, Hippolyte (Laurence Mazzoni) – che si rivelerà disastrosa – così come le relazioni extraconiugali che intesse con Léon (Mauro Conte), uno studente di giurisprudenza che la lascerà per completare i suoi studi a Parigi, e con Rodolphe Boulanger (Xhuljo Petushi), un ricco proprietario terriero e don giovanni per il quale Emma è soltanto un’altra donna da aggiungere alla sua collezione. Nel frattempo Emma comincia a contrarre numerosi debiti sperperando tutto il denaro che Charles le mette a disposizione; alla fine, messa alle strette dai creditori, si ritrova così a chiedere prestiti ai suoi amanti che, puntualmente, le negano. Non vedendo altra via d’uscita, Emma s’ammazza ingoiando dell’arsenico.
Lo spettacolo, in tutto, ha una durata di due ore e mezza (escluso l’intervallo) e per tutto il tempo al pubblico non resta altro che assistere, impotente, al disfacimento fisico e mentale della protagonista. A volerla immaginare, l’eroina di Gustave Flaubert è una donna frivola, fragile, per certi versi anche vittima della condizione sociale di quel tempo e del suo essere donna. La Madame Bovary di Lucia Lavia, di contro, pare essere una donna di spessore, con le sue debolezze certo, ma comunque una donna di spessore, decisa, volubile, e anche isterica. Un’isteria dettata dal rancore, dal vuoto che la circonda e da cui si circonda, da rapporti sociali superficiali e da una vita fatta di apparenze e illusioni. La scelta di questa interpretazione si riconduce al grido disperato di un individuo che si vede spogliato di tutto, di sentirsi ingabbiato in canoni comportamentali ed etici. Da lei (intesa come donna e riferendoci a Madame Bovary) ci si aspetta che diventi il frutto di quelle regole imposte dalla società, qualsiasi altra forma di espressione del proprio io è bandita. Emma è quindi annientata dal sociale nel più recondito del suo ego, non solo per la sua condizione di femmina nei confronti del maschio (disparità che ancora oggi è in vigore), ma anche nelle sue più vaste forme di espressività. Lucia/Emma dunque grida, si ribella, calpesta nervosa e insoddisfatta il palco, una chiara allegoria della vita.
Siamo tutti attori di teatro, con le nostre debolezze, valori, virtù e difetti, ed è facile sentirsi schiacciati dal peso delle maschere che ci portiamo addosso. Lucia Lavia non fa distinzione tra finzione e realtà. Nel suo corpo, nel suo viso, nella sua voce tutto è vero: l’attrice si confonde con la protagonista, anzi s’annulla, scompare. Perché: “Madame Bovary c’est moi!”.
Costanza Carla Iannacone
25 febbraio 2016