#Recensione dello spettacolo Giardino di mangrovie in scena al Teatro Palladium dal 19 al 20 febbraio 2016
«Se mi proponessero di abitare nei pressi del giardino più meraviglioso mai concepito dall'arte umana, o nella lugubre palude, sceglierei senz'altro la palude»
(Henry David Thoreau, Camminare, 1863)
Costante Porfirio (Emanuele Vezzoli) passa la sua vita chiuso nella sala da bagno della sua abitazione, fatiscente, stretta tra paludi e mangrovie infestanti, ed è incalzato da una presenza femminile (Elisabetta Femiano), il Convivente, che lo interroga e lo interpella senza tregua.
Si tratta dell'adattamento teatrale del romanzo di Renato Gabriele (pontino d'adozione, da lì forse proviene l'immaginario della palude?) Il pensiero molle di Costante Porfirio, messo in scena da Danilo Proia.
Le due figure, abitano un mondo spaccato in due da un terremoto, simbolo di una dicotomia innanzitutto sociale e finanziaria, ma anche mentale: nella palude Costante si crogiola nella sua situazione di immobilità e paura, schiavo di un passato tragico che non riesce a metabolizzare, mentre il Convivente lo accusa e ne tocca senza pietà tutti i nervi scoperti e le debolezze.
Il passato sembra essere la dimensione drammatica principale – entro cui è sospeso un evento traumatico legato a un'altra figura femminile, Viola – e le continue oscillazioni temporali tra narrazione presente e flashback fanno respirare il testo teatrale come i movimenti di una marea.
Il tono e il registro espressivi cambiano continuamente – sia verbalmente, sia fisicamente – forse anche per scongiurare un certo rischio-noia che il testo potrebbe generare: si va dalla enfatizzazione drammatica particolarmente caricata alla cadenza da commedia, dalle parlate dialettali ai toni infantili e bambineschi, in una sorta di horror vacui recitativo, schizofrenico ma fluente, che i due attori riescono a gestire ottimamente (e faticosamente).
Alcuni siparietti musicali, al suono di C'è una strada nel bosco, come di Hey Boy Hey Girl dei Chemical Brothers, contribuiscono a rompere il ritmo, e a creare momenti di straniamento onirici, funzionali all'impronta fortemente introspettiva di tutta l'opera.
La scenografia, entro la quale i due personaggi si muovono come se ne fossero imprigionati, si appoggia soprattutto sulla gabbia spaziale che racchiude la vasca da bagno, regno di Costante – e strizzata d'occhio alle angosciose prigioni esistenziali di Francis Bacon – e su altri pochi elementi polifunzionali, come i due tavolini-sgabelli mobili.
La pièce potrebbe far pensare alle atmosfere assurde e scarne di certi pezzi di teatro di Samuel Beckett, verso il quale di certo l'autore nutre un grande amore, o alla frammentazione dello stream of consciousness letterario, in cui ricordi e pensieri si mescolano in un flusso inarrestabile di interiorità liberata – flusso ininterrotto suggerito anche dalla scelta di non sottolineare l'interruzione tra un atto e l'altro.
E di fatti permane un senso di confusione ambigua tra presente e passato, tra ricordo, immaginazione e paranoia, in cui anche le identità dei due personaggi scivolano l'una verso l'altra, come se fossero in realtà due parti di una stessa personalità e coscienza, sospesa nel ricordo e nel rimpianto e incapace di riscattare il proprio presente.
Mario Finazzi
21 febbraio 2016