#Recensione dello spettacolo Porcile, in scena al Teatro Vascello dal 16 al 28 febbraio 2016
Al teatro Vascello, un allestimento scenografico apposito per presentare l’ultima fatica di Valerio Binasco. Su un pavimento coperto da piastrelle, fra oggetti in movimento, poltrone, tavoli e fondali che riportano le colonne e gli archi di una vecchia villa tedesca viene inscenata una personalissima revisitazione di Porcile, dramma del Pasolini regista.
Riprendere Pasolini è una scelta che operano in molti, di sicuro sempre una sfida. Riprendere i sensi impliciti, le azioni metaforiche e i gesti evidenti, i messaggi alti e profondi di natura poetica, un po’ esistenziali ma sempre con un occhio vigile sul quotidiano e la realtà, rendono complesso l’approccio a un autore controverso, al passo coi suoi tempi e con uno sguardo puntato anche oltre, capace di comprendere già l’evoluzione di fenomeni proiettati nel tempo stesso in cui la sua vita veniva vissuta. Fra le sue opere, Porcile si aggiudica un posto d’onore per originalità e tratteggio sociale, originalità che Binasco riprende e riconsegna in una veste non di imitazione e duplicazione ma di personalizzazione.
La volontà del regista non è quella di riportare in scena l’opera pasoliniana secondo criteri tipici, cari a Pasolini, ma partire dall’idea e dal testo e sviluppare un proprio lavoro, una propria interpretazione della trama. “Avrebbe detestato una messa in scena come la mia, non straniata, non concettuale” dice il regista pensando a un ipotetico parere di Pasolini, ed effettivamente se da un lato si può apprezzare la riscrittura personale che rifugge il copia e incolla, dall’altra parte si assiste a una, forse, eccessiva spersonalizzazione. Si tratta di un tema non sempre espresso e inserito nei giusti connotati, nonostante la qualità recitativa degli attori è evidente e l’impegno nella realizzazione della messa in scena è alto, partendo anche solo dall’allestimento scenografico, la scelta dei costumi e delle luci. Il tutto viene, però, reso caricaturale fino allo stremo, comportando, anche qui, un duplice effetto: l’esasperazione dei personaggi enfatizza le loro caratteristiche aiutandoci a permeare ancor meglio nel senso, rischiando però di dare un tono eccessivamente barocco all’esposizione e alla trama che viene così messa da parte perché ci si concentra su questi tipi dagli atteggiamenti grotteschi.Ma è forse proprio questa l’intenzione di Binasco, rendere barocca, eccessiva e storpiata una trama che anche Pasolini enfatizza ma con una sostanza di fondo e uno sguardo analitico differente. Tutto questo preambolo per scandire la messa in scena della trama di Porcile, dove viene rappresentata la classe dirigente tedesca, sullo sfondo della Germania dei tardi anni ’60, nel vivo delle contestazioni studentesche.
La vicenda ruota attorno a Julien, figlio venticinquenne e futuro erede di una coppia di industriali borghesi, affetto da un’apatia frutto di un’incapacità di scelta. Attorno a lui Ida, ragazza innamorata pur se non ricambiata, che viene anzi derisa e sbeffeggiata da un Julien incapace di amare, incapace di rispecchiarsi negli ideali pacifisti e nello stimolo politico della ragazza che lo invoglia in contestazioni sessantottine, così come non riesce ad interessarsi agli affari industriali o adattarsi a quel marchio capitalistico dei genitori ex nazisti. Non c’è ribellione, non c’è adattamento, solo una forma di stasi in un limbo che va arrovellandosi fra sensi di colpa e indifferenza anche per questi ultimi, menefreghismo e dolore per quel menefreghismo, senza uscire dal culmine dell’indifferenza. Un’indifferenza che ammala e porterà Julien a una nevrosi acuta, data dal non ritrovarsi in nessun posto. “Io non ho opinioni. Ho tentato di averne, e ho fatto, in conseguenza, il mio dovere. Così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista.” La contraddittorietà di Julien è lo specchio che ci permette di comprendere le diversità radicali che Pasolini affronta e ama riportare.
L’indifferenza del protagonista è vessillo per comprendere e permeare il pensiero pasoliniano, attento alle sfumature e alle ambiguità della natura umana. Pasolini politico è innanzitutto Pasolini poeta e i due aspetti in lui viaggiano su binari che si incrociano. Così nell’ispezionare l’animo umano emerge quell’attenzione al dettaglio che fa dell’indifferenza uno stato su cui indagare. In questo caso questo essere apatici nei confronti del mondo e dei suoi fatti ci arriva molto come una forma di atipicità e non adattamento che può essere catalogata anche come controcorrente, come se l’indifferenza fosse il vero atteggiamento di opposizione perché non si abbassa alle ipocrisie di lotte fasulle. Pare quasi eroica poiché non conformista. Abbatte però la speranza e la voglia di lottare che Pasolini, per quanto disilluso e comprensivo delle contraddizioni umane, non abbandonerà mai. Infatti, l’indifferenza è comunque fortemente criticata, poiché si riduce ad inerzia, a un non prendere posizione e a non essere parte attiva. Così come le varie tragedie pasoliniane, anche qui ricorre, dunque, il dramma familiare e le implicazioni politiche e sociali ad essa connesse, il marciume borghese e le difficoltà di una nuova generazione che non sa reagire. Alle varie posizioni, Julien preferisce concedersi un’unica azione che lo rende attivo e procura piacere, un piacere perverso che sta nell’accoppiarsi con dei maiali, fino a che non verrà divorato, nel finale, da questi stessi animali. Il tutto viene vissuto come trauma collettivo e il simbolismo dello scioglimento è evidente, la società è il porcile e il porcile divora senza possibilità di riscatto i suoi figli, non offrendo le basi e le speranze di rinnovarsi, credere, di abolire l’indifferenza sempre più dilagante e farne così carne trita, incapace di ribellarsi.
Erika Cofone
23 febbraio 2016