Recensione dello spettacolo Nessun Luogo È Lontano in scena al Teatro Argot Studio dal 5 al 21 febbraio 2016
In una baita sperduta tra i monti, la cui apparenza rigida ed essenziale non ha nulla di caldo, accogliente o ospitale, vive Mario Capaldini (Giampiero Rappa): un celebre scrittore che, dopo aver polemicamente rifiutato un premio in diretta televisiva, anche a causa del clamore suscitato ha deciso di allontanarsi da tutto ciò che viene ritenuto civile, normale e rassicurante per vivere in totale isolamento. Niente telefono, niente televisore, contatti umani brevi e conflittuali.
Lo spettatore scopre tutto ciò grazie alle domande di Anna Vulli (Valentina Cenni), una giovane giornalista arrivata fin lì allo scopo di raccogliere una sua intervista, concessa in esclusiva al giornale presso cui lavora. Sin da subito le cose non sono facili: l’uomo, cinico e scorbutico, attacca immediatamente una schermaglia verbale a cui la reporter – in realtà una inviata di guerra prestata solo momentaneamente alla pagina culturale - decide caparbiamente di tener testa, riuscendo a scalfire per qualche istante la nevrotica routine e la mania per il controllo dietro cui lo scrittore si rifugia e ha congelato la propria vita. A questa crisi segue l’improvvisa visita di Ronny (Giuseppe Tantillo), giovane e complicato nipote la cui apparizione inaspettata è vissuta in maniera ambivalente, a metà tra gioia di rivederlo e feroce volontà di difendere il proprio isolamento. Ma perché il ragazzo trova ogni scusa per non tornarsene a casa sua e perché quella giornalista, che dovrà tornare da lì a breve per fargli leggere la trascrizione dell’intervista prima di pubblicarla, lo turba tanto?
“Nessun Luogo È Lontano”, ottimamente scritto dallo stesso Giampiero Rappa, è un testo che parla di conflittualità, emotività irrisolte, scoprirsi per un istante e pagare quell’attimo con anni di sovrastrutture, rancori, proiezioni e pulsioni mai confessate: a riprova che non c’è luogo dove nasconderti se è da te stesso che fuggi. L’opera è ben ambientata grazie a uno spazio arredato in maniera semplice ed efficace, vagamente simbolico e claustrofobico: l’unica pausa possibile da sé è offerta da una finestra verso la quale guardare, la tavola è luogo eletto all’incomunicabilità mentre il camino è preposto al raccoglimento, allo scaldarsi, al farsi compagnia anche da soli. Il tutto è caratterizzato dalle musiche originali appositamente composte da Stefano Bollani. Il grande difetto di questa messa in scena risiede, però, nei suoi attori e nei ritmi della recitazione: pochissime e mal gestite sono quelle pause che darebbero il giusto e verosimile tempo per comprendere ciò che l’altro dice, afferma, minaccia, giudica, vomita, supplica. C’è una urgenza di dire la propria battuta che spezza continuamente l’atmosfera creatasi, svelando continuamente e del tutto involontariamente che ci troviamo a teatro: sebbene il giovane Giuseppe Tantillo riesca con la sua verve, la spontaneità e i vari registri recitativi, a regalare qualche momento piacevolmente credibile lo stesso non può dirsi di Valentina Cenni, che non sembra aver messo totalmente a fuoco il suo personaggio. Il che è un grave problema per la riuscita generale, vista la sua funzione catalizzatrice di conflitti, inquietudini e soluzioni.
La sensazione che rimane in chi guarda è quella di un grande potenziale in qualche modo reso meno efficace da tanti piccoli inceppamenti d’intenzione, che finiscono per far girare l’ingranaggio a vuoto tra eccessi di parossismo e una certa difficoltà nello scegliere l’intonazione giusta quando non si tratti di urlare.
Cristian Pandolfino
12 febbraio 2016