Recensione La conferenza degli uccelli, in scena al Teatro Sala Uno dal 2 al 7 febbraio 2016
Nel suggestivo spazio scenico del Sala Uno Teatro viene esibito uno spettacolo di commistione musicale e teatrale. La regia di Reza Keradman, accompagnato nella recitazione dalla bravissima Astra Lanz, riporta in scena l’opera più conosciuta di Attar, poeta iraniano. Possiamo, così, lasciarci trasportare dalla realizzazione del profondo testo de: La conferenza degli uccelli.
Pietra, mattoni, arcate, navata, legno. Gli elementi semplici, basilari, fondamentali, che rendono il Sala Uno già di per se un luogo suggestivo, non possono non esaltare maggiormente lo spettacolo che Reza Keradman propone. In scena un’opera lontana per tempo e geografia ci porta a vivere echi lontani. XII secolo, Farid al-Din 'Attar, poeta e romanziere mistico iraniano, vissuto tra il 1117 e il 1204, partorisce La conferenza degli uccelli, un’opera “rappresenta un cammino spirituale, mistico, individuale basato sulla ricerca della verità, lontano dalle retoriche religiose e da racconti fantastici o più semplicemente popolari”. Fu il celebre Peter Brook a riprendere l’opera e trasporla teatralmente, fornendole così fama mondiale. E da questa trasposizione attinge il nostro Keradman, che si avvale della musica dal vivo di Reza e Hamid Mohsenipour, per arricchire la scena. Il palco è vuoto, privo di alcuna scenografia, solo un angolo è occupato da un tappeto persiano e quattro figure tradizionalmente vestite. Mentre due uomini imbracciano degli strumenti tipici, un flauto traverso, il tàr e alcune percussioni, un uomo e una donna, in tunica bianca e mantelle ornamentali iniziano da seduti il loro discorrere. Si stabiliscono immediatamente i ruoli, i due tipi di esperienze e saggezze, alla donna che si presenta come stimolata dal desiderio, del vivere ardendo, dei piaceri terreni, del senso tattile delle cose, si alterna lo spirituale uomo che indaga oltre il tangibile, che parla di spirito e di felicità che non si possono raggiungere solo in base ai piaceri terreni. Si intraprende un cammino, fatto di storie,versi, racconti, cesellati di aforismi, come saggezza antica vuole. Ogni storia segna una tappa, ogni tappa è un luogo, una valle e un raggiungimento di qualcosa. Le valli sono dette valli dell’amore, perché l’amore è la forza motrice. L’inizio stesso del viaggiare è spinto dall’amore per se e per gli altri, un’iniziazione che nasce da una raggiunta consapevolezza o da una ricerca di essa. Il viaggio intrapreso è sinonimo di quello intrapreso dal gruppo di uccelli tristi e disorientati nel poema del XII sec. Senza un proprio re, gli uccelli riuniscono in assemblea sotto la guida di un upupa per andare alla sua ricerca, e durante il faticoso percorso, devono affrontare una serie di estenuanti prove psico-fisiche. Solo una trentina riuscirà a raggiungere la meta in cima alla montagna dove vedranno il riflesso di un gigantesco uccello, il "SIMURG" (che in persiano significa proprio trenta uccelli) simbolo della perfezione spirituale ed immagine divina. Questa ricerca cela il percorso iniziatico della mistica sufi, che non è religione o filosofia, quanto piuttosto un modo d’essere, “un addestramento mentale incisivo e alieno al dogmatismo...che ha elaborato un ampio repertorio di storie che mancano di un destinatario particolare” poiché si rivolgono all’umanità intera. Nel viaggio dei due protagonisti il senso di molte cose pare inafferrabile, eppure qualcosa internamente ci risuona come vero, forse perché viene preservata nella scrittura antica una connessione con la realtà delle cose più autentica dell’epoca di immagini e apparenze che si va costruendo. Una verità che risuona e avvertiamo come tale perché deriva da un mondo più a contatto con le origini, col principio, dove il distacco con la natura, l’universo e i richiami energetici era inferiore e non condizionato da un progresso che sta trascinando anche ad un regresso di sensazione e sensibilità. Questa verità che spinge ad essere ricercata ed è lo stimolo del viaggio ci pone di fronte a un dualismo che le due figure rappresentano: l’importanza dello spirituale, dell’oltre, della felicità non raggiungibile solo attraverso le cose terrene, e nel contempo il contatto, il non reprimere, soccombere o svilire delle passioni e della carne. La dualità che deve approdare in unità. L’importanza del nero e del bianco, del doppio che deve combaciare in un centro riunificato. Il misticismo di ogni storia e meta di viaggio viene esposto con semplicità e pacatezza, svelando tutto lo studio di equilibrio e di impegno che portano alla riuscita della messa in scena. I giochi di luce, i giusti scatti, la recitazione alta di Astra Lanz che adotta meravigliosamente un’espressività mimica e timbri di voce alternamente calibrati, muovendosi leggera ma incisiva, sfruttando bene lo spazio teatrale. Scoprendo un senso attraverso metafore, lo spettacolo ci ricorda come l’umanità intera è perennemente impegnata nel cammino del “conosci te stesso” in un viaggio che è componente fondamentale del percorso umano, dove nulla rimane eterno, tutto si trasforma. Movimenti circolari, evoluzione, crescita, ascesi, l’inciampare e il rialzarsi, esplorare. Tutto questo e altro ancora, l’esprimibile e l’indicibile in un pezzo teatrale che deve continuare a girare.
Erika Cofone
9 febbraio 2016