Recensione dello spettacolo Ubu Roi in scena al Teatro Vascello dal 4 al 7 febbraio 2016
«Io vi ho resi pazzi e in questo stato anche uomini come voi finiscono con l'impiccarsi e l'annegarsi da soli»
(William Shakespeare, La Tempesta)
Che succede quando Re Ubu incontra Roberto Latini?
Da un lato abbiamo Ubu, personaggio pre-Dada farsesco e goffo, scaturito esattamente 120 anni fa (eh già, era il 1896!) dalla geniale (e patafisicheggiante) immaginazione di Alfred Jarry, per incarnare nella figura di un tiranno infantile le piccolezze meschine dell'umanità; dall'altra Roberto Latini, che porta avanti una sua idea di teatro battagliero e ribelle che non fa sconti a nessuno, portando alto il vessillo del teatro anti-borghese che passò tra le mani di Antonin Artaud, Carmelo Bene, Leo De Berardinis, tanto per citarne solo alcuni.
Ed ecco da questo incontro esplodere l'Ubu Roi, messo in scena al Vascello dalla compagnia Fortebraccio Teatro.La storia è quella di Pére Ubu, capitano dei Dragoni, che assassina il re Venceslao di Polonia per sete di potere, diventa tiranno e scatena una guerra – dopo aver ovviamente decervellato tutti i nobili per appropriarsi delle loro ricchezze, come ogni bravo tiranno che si rispetti – manipolato da una moglie, Mére Ubu, subdola e spietata.
I personaggi sono quasi tutti studiati per essere eccessivi, caricaturali fino al nonsense, sia verbalmente, sia fisicamente. A volte si muovono nello spazio in modo faticoso – come il Capitano Bordure (Marco Jackson Vergani) che cammina trascinando una gamba in modo innaturalmente esagerato – o fastidioso – come la baffuta Mére Ubu (il bravo Ciro Masella) ora stridula arpia, ora quasi trasposizione dinamica della impressionante Madre Terra incisa da Alfred Kubin nel 1902.
E tutti gli attori hanno studiato un loro modo di distorcere la parlata, un tic, un tormentone o una frase feticcio che li contraddistingua – d'altra parte seguendo da vicino il mondo di Jarry in cui il personaggio di Ubu è caratterizzato dall'esclamazione «Merdra!», distorsione della popolare parolaccia – e nel farlo vanno a pescare spunti nell'universo della recitazione comica, da Buster Keaton ai mimi, dai clown ai Fratelli Marx ( sia nella fisicità sia nel ritmo comico e nella gestione delle scene più affollate ) ai nostri comici degli anni Ottanta e Novanta.
L'effetto potrebbe essere quello della sala di un manicomio, e in questo si strizza l'occhio al teatro dell'assurdo, di cui l'opera di Jarry è ultimamente letta come precorritrice.
Una visionarietà surreale pervade tutta la piece, con alcuni picchi stranianti di rara suggestione, e chi voglia trovare citazioni e riferimenti non ha che da accomodarsi. Il movimento e l'aspetto fortemente scimmieschi dei “cortigiani” di Ubu, che non può non richiamare Il Pianeta delle Scimmie; così come l'ambiente di scena, col suo abbacinante e algido biancore, ci riporta alle atmosfere di THX 1138 di George Lucas; mentre l'accumulo folle e colorato di personaggi potrebbe rimandare a L'ultima tempesta di Peter Greenaway.
E poi lo zar Alessio (Sebastian Barbalan) che ammicca superbamente a tutto il cinema di samurai, pre e post pop, con pioggia di petali di ciliegio compresa.
Ed è solo una minima parte di tutti i rimandi possibili e immaginabili.
Latini intervalla, e invade, la storia di Ubu con almeno tre tipi di intermezzi: una dolce e triste storia d'amore tra una donna orso e un uomo orso, dei girotondi clowneschi e circensi vagamente felliniani, e infine una sua personale assurda e (pre)potente interpretazione di Pinocchio, qui personaggio tragico e lirico, in bocca al quale finiscono citazioni da opere di Shakespeare, soprattutto da Macbeth – comprese comunque nel testo originale di Jarry – la cui recitazione è asciutta e tagliente alla Bene.
L'Ubu di Latini potrebbe sembrare a tratti spigoloso, caotico e ridondante, forse anche sgradevole: ma di certo cosa vorremmo aspettarci, da un teatro che potremmo quasi dire punk, se non un'originalità scomoda e antipatica, ma infine genuinamente libera e fresca?
E quale mezzo migliore per farci riflettere, ridendo a denti stretti, sulla miseria e sulla follia della condizione umana?
Mario Finazzi
7 febbraio 2016