Recensione dello spettacolo Antigone, in scena al teatro Studio Uno dal 17 al 20 dicembre 2015
Due attori pienamente immedesimati, Julia Boretti e Titta Ceccano, si confrontano, nella Sala specchi del Teatro Studio Uno, con uno dei maggiori drammi sofoclei. Dall’incontro dei due artisti prende vita Matutateatro, una compagnia che applica un lavoro fuori schema e non catalogabile in un preciso genere, sicuramente dedito allo sperimentale e al miscuglio di più elementi. Così va in scena la riscrittura dell’Antigone, una tragedia senza tempo, che in una pluralità di forme teatrali trasmette vari conflitti umani da sempre esistiti, da quelli più generali come le questioni di potere e di carattere decisionale, a quelli più intimi e sottili, gli inneschi tra donne e uomini e tra generazioni che si confrontato e si scontrano.
Nella sala buia prende forma man mano una scenografia dai contorni metafisici, taglienti e nel contempo concreti, spigolosi e imprecisati. Alla naturalità di due grandi sassi fermi sulla scena si contrappone una sorta di schermo vuoto e un neon che delimita il perimetro del palco alternando le sue luci fredde. Due scritte luminose si accendono a intermittenza: SALE, quindi vendita, e παιδοκτόνοι, infanticidio. Un contesto che vuole riprendere tanto lo standard della vetrina, un luogo di osservazione quindi e di svendita, quanto uno spazio più confidenziale, “un’ interno borghese dove si consuma una violenza domestica che è fisica e metaforica allo stesso tempo”. Una geografia scenica strana, incomprensibile, criptica ed esaustiva al tempo stesso. Qui si svolge l’azione di uno dei più grandi drammi ispirati alla storia di Edipo, re di Tebe. Conosciamo Antigone, una giovane ragazza dal temperamento ribelle e non sottomesso, che si sottrae all’obbligo solito della donna che dovrebbe pensare al suo futuro e ai suoi doveri invece di immischiarsi in faccende politiche, al tempo in cui la politica era ancora affare per soli uomini (elemento trasportato nell’epoca contemporanea, dove si pensa, ancora fallocentricamente, che la politica è una questione comunque gestita meglio dal sesso maschile). Altra figura è Creonte, re tiranno di cui viene messo in luce più l’aspetto razionale e attento alle conseguenze piuttosto che il fare despotico. Il tutto ruota attorno alla vicenda di Antigone e la sua scelta di dare degna sepoltura al corpo di suo fratello Polinice, un gesto non solo d’amore verso quel corpo spento, ma un riscatto di diritti e affermazione delle sue decisioni. Proprio contro questo spirito di libertà e determinazione Creonte profetizzerà: << Volete un corpo a corpo con il destino e con la morte». Viene fermata Antigone, e condotta presso suo zio Creonte che la giudica colpevole. La legge parla chiaro, si deve condannare chi disobbedisce agli ordini di un tiranno, ma l’uomo è titubante. Creonte è indeciso sul condannare o meno la giovine che è promessa sposa a suo figlio Emone. In scena viene riportato proprio il confronto fra il re Creonte e sua nipote Antigone, un dibattito che sottolinea diverse sfumature: l’indecisione di Creonte sul condannare o meno la fanciulla, la risolutezza di Antigone, la paura dell’immagine pubblica e il trasgredire l’ordine costituito, l’infischiarsene delle strutture del potere, i momenti di imposizione e le disobbedienze caparbie, una società che non crede nelle decisioni dei più giovani, visti come avventati, e una generazione che vuole imporre anche il proprio pensiero. La società rappresentata da Creonte, per quanto tendente alla riflessione non avventata, non domerà il suo spirito tirannico, ostile e intollerante. Ucciderà il pensiero dei propri figli che consumano il loro dramma in questa vetrina al neon, e finiscono, così come finisce simbolicamente Antigone, in una distesa con una luminaria che infligge agli occhi la scritta Sale. Siamo in vendita, siamo comprabili, ci vendiamo o ci vendono, ci comprano, siamo esposti. Con sapienti dialoghi si sviluppa l’intreccio, in una trama dove si mescolano frammenti di Sofocle, passando per la versione novecentesca di Anouilh e il cinema della Calvani. Il tutto è spezzato e arricchito al contempo da momenti musicali, dove con meccanici movimenti la Boretti accenna passi di una danza plastica. Una riflessione sul nostro presente, dunque, dove la palese complicità dei due attori non sempre colma qualche momento di inceppo che subisce la rappresentazione. A tratti l’azione pare bloccata per poi riprendersi ed esplodere in monologhi sentiti e potenti: “Lei ha deciso che è tempo di finirla con queste porcate, di assecondare chi alza la voce, di ascoltare chi detta le leggi, lei ora è in attesa. Attende sotto i riflettori”. In un complesso che può rischiare qualche nota di piattezza, arriva, comunque un messaggio di sicura restituzione contemporanea. Di questa formula vorremmo ancora sentir parlare e vederne i progressi.
Erika Cofone
24 dicembre 2015