Recensione dello spettacolo Anelante in scena al Teatro Vascello dal 9 dicembre 2015 al 17 gennaio 2016
In principio era il verbo.
Eh sì perché la parola è assolutamente protagonista dei pezzi composti da Antonio Rezza, e chi lo conosce – chi lo ama, chi lo odia – già lo sa. Mai come in questo Anelante, infatti, il nuovo spettacolo nato dalla ormai consolidata collaborazione artistica tra Rezza e Flavia Mastrella, la parola straripa e si espande a fiotti riempiendo ogni spazio e tempo in un folle quanto divertentissimo horror vacui fonico.
Rezza guida un flusso di parole, e di (in)coscienza, inarrestabile e trascinante, a volte sembra più inseguirlo in caduta libera, quasi operasse come un Jackson Pollock del monologo.
Attraverso infiniti cambi di registro, di tono e di ritmo, passa dal gioco di parole, al calembour, al grammelot, spesso forzando la libertà del linguaggio – libero dalle catene della razionalità, della mente – fino ad esilaranti automatismi sospesi tra la glossolalia e l'afasia fluente: parole che diventano altre parole, ripetizioni ossessive non-sense alternate a frammenti di senso, confessioni e ricordi psicanalitici di una mente affetta da nevrosi e psicopatologie assortite. Che poi, diciamolo, sono nevrosi che appartengono un poco a tutti noi.
È un caos vitale quello di Rezza, che sembra affondare lontane radici nelle avanguardie storiche: il dirompente disordine Dada, l'inconscio al potere dei Surrealisti, senza dimenticarsi le parole in libertà futuriste.
Ovviamente, giustamente, manca una vera e propria narrazione. Al più si schizza qualche personaggio, qualche pretesto, che poi non sono altro che vittime sacrificali e sacrificate a questo dio della parola, folle e demente, di cui Rezza si fa sacerdote. Si parla di numeri ad esempio – grandi matematici i cui teoremi perdono senso, così come perdono senso i meeting dei potenti G20, G14, G8 – ma anche di solitudine e di inutilità o impossibilità del dialogo, del linguaggio, se non come vuoti strumenti di affermazione narcisistica dell'ego.
E in più appaiono nuovi personaggi assurdi, di cui non vogliamo spoilerare, che magari accennano qualche cinica critica sociale o esistenziale (Dio, le dinamiche familiari, il rapporto tra i sessi) senza però mai approfondire il colpo.
Anche il linguaggio della sessualità, evocato in modo brutale e quasi fastidioso, seppure goliardicamente divertente, viene depotenziato e irriso senza pietà, strizzando l'occhio alla psicanalisi e giocando con la sensibilità pudica del pubblico.
Il ritmo delle parole è eccitato o rotto da altrettanti frenetici movimenti dei corpi. Corpi, al plurale avete letto bene, perché – udite udite – per la prima volta Rezza si accompagna a quattro superbi gregari: Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara A. Perrini ed Enzo Di Norscia (nella parte di Enzo). In questo modo, intorno a un Rezza egotico e assoluto protagonista – che corre, salta, si rotola a terra come un folletto – si moltiplicano le possibili combinazioni espressive, relazionali e inventive. E a questo contribuiscono pure le consuete sculture interagibili della Mastrella (che questa volta ricordano solide forme costruttiviste) entro le quali gli attori si infilano, si frammentano, si nascondono, si incorniciano.
Altra novità è l'uso di pause di silenzio, che in contrapposizione con lo tsunami verbale creano uno strano effetto ansiogeno, quasi terrorizzante. E del resto, non sono forse i silenzi nei dialoghi a crearci spesso imbarazzo e disagio? Perchè, come scriveva Vannuccio Barbaro, il silenzio è d'imbarazzo a chi non ha nulla da dire.
Mario Finazzi
18 dicembre 2015