Recensione dello spettacolo Mar del Plata in scena al teatro Piccolo Eliseo dal 4 al 22 novembre 2015
Come i dieci piccoli indiani della Christie, anche i giocatori della squadra di rugby di Mar del Plata, nell'Argentina del 1978, iniziano a scomparire misteriosamente.
È questa la premessa da cui parte lo spettacolo Mar del Plata – messo in scena da Giuseppe Marini basandosi sul libro omonimo di Claudio Fava (ricordate? Lo sceneggiatore de I cento passi, il film su Peppino Impastato?) – per accompagnarci lungo una cupa e dolorosa discesa nell'inferno della spietata follia umana.
Chi però si aspettasse di trovare una inedita trasposizione teatrale di gesta sportive e azioni di gioco rimarrà deluso: a parte qualche flessione e qualche scena da spogliatoio, il fuoco dell'attenzione sarà concentrato sulla storia umana di quei ragazzi che amarono il rugby più di ogni altra cosa. Ragazzi del popolo, fornai, conciatori, postini, che nel rugby intravedevano una possibilità di riscatto, di evasione dalla loro realtà, e anche uno strumento per opporsi alla morsa della dittatura di Jorge Rafael Videla. A cominciare dal giovanissimo Diego, primo scomparso per mano del regime, sospettato di aver aderito all'Unione degli Studenti, al quale i compagni di squadra dedicheranno non uno ma dieci minuti di silenzio, attirando così la nefasta attenzione dei militari.
Spariranno uno a uno, sotto gli occhi del paterno mister Hugo Passarella – dalle origini siciliane, e l'uso di alcune parole in quel dialetto evocherà sinistre analogie con il sistema mafioso – interpretato da un più che mai ispirato Fabio Bussotti, che per salvarli tenterà di farli scendere a compromessi, conoscendo bene la natura del male affrontato.
Dall'altra parte il villain Montonero, viscido e sgradevole ufficiale impersonato da Claudio Casadio, rappresenta il regime, entro le cui braccia ha scelto di rifugiarsi per dare un senso alla sua mediocre esistenza: è lui che dietro ordine del superiore Bellares organizza personalmente pestaggi, uccisioni, finti suicidi, atroci torture, per annientare ogni presunta minaccia all'ordine e al potere (ovvero tutti quanti erano solo sospettati di essere o frequentare comunisti, sindacalisti, omosessuali, anarchici, etc. etc.).
La scena è una sorta di grande gabbia fatta di pannelli metallici, uno spogliatoio, ma potrebbe rammentare anche un carcere, o il cancello di uno stadio, e non lascia nessuno spiraglio aperto, nessun punto di fuga.
La recitazione si svolge su due registri. L'uno, più naturale, è utilizzato nella maggior parte dei casi, e segue un ritmo naturale, convenzionale; l'altro, dilatato e rallentato, crea alcuni momenti onirici e solenni, aiutati da un sapiente uso di luci colorate blu e rosse, in cui i personaggi sembrano per un istante diventare eroi e antieroi mitici, incarnare gli archetipi del persecutore, della vittima, del pavido. Sono momenti di grande impatto suggestivo e tragico, e forse derivano dall'esperienza di Marini con certi grandi classici del teatro drammatico antico e moderno (Sofocle, Ibsen, Beckett, Genet), il cui spirito ben si adatta alla vicenda kafkiana e assurda qui rappresentata.
E del resto tutto il pezzo punta al coinvolgimento emozionale dello spettatore, sottolineando i punti più forti con colonne sonore coinvolgenti, ma mai fuori posto, dalle musiche alla Michael Nyman, per intenderci, alla versione di Max Richter delle Quattro Stagioni di Vivaldi (che accompagna lo struggente monologo di Raul, Giovanni Anzaldo), al pezzo di tango d'antan (terribilmente associato ai momenti di tortura di Turco, Andrea Paolotti).
È un pugno allo stomaco Mar del Plata, tanto più duro quanto ripreso da fatti reali – è veramente accaduta la storia dei giocatori presi loro malgrado nel folle meccanismo del terrore argentino – e a tratti moralmente insopportabile, crudo, violento. Ed è per questo anche uno spettacolo necessario perché quei fatti storici, e con essi la giustizia per le vittime e i parenti di quelle, non cadano nel dimenticatoio e nel silenzio (soprattutto oggi, quando sono ancora in piedi importanti processi come il Condor, proprio qui a Roma). Quel silenzio che Marini ha scelto per (non) dar voce agli spari di pistola, forse a ricordarci che a volte il silenzio uccide.
Mario Finazzi
22 novembre 2015