Recensione di Agnese di Dio in scena dal 6 al 18 ottobre 2015 al Teatro dei Conciatori
Ci sono tutti gli ingredienti di un romanzo di Edgar Wallace, ma quella di Agnese di Dio non è solo una crime story e se lo fosse lo sarebbe molto ma molto sui generis.
Agnese è una suora sui trentanni e fin qui tutto bene, ma che in una notte buia e tempestosa partorisca un bambino, No, non va per nulla bene.
Del padre del bambino non si sa l'identità e fin qui ordinaria amministrazione ma che il bambino venga trovato ucciso subito dopo il parto, No, non è per nulla normale, che poi non si sappia chi sia stato l'assassino e che si sospetti in padre ignoto, questo sì riporta nella sfera dell'ordinario.
Agnese sotto shock non ricorda nulla ma sopratutto non ne vuole parlare e quindi viene mandata nel convento una psichiatra, la Dott.ssa Martha Livingston, che dovrà decidere della colpevolezza dell'accusata e fare i conti con l'iperprotettività e le disillusioni di Madre Miriam (Ruth) col passato di Agnese e con se stessa.
John Pielmeier, autore nel 1979 della scrittura teatrale, mette a confronto tre donne appartenenti a tre generazioni differenti, le loro vite e le loro convinzioni instillando in ognuna di esse il dubbio che forse ha sbagliato e continua a sbagliare tutto. Il merito del testo sta soprattutto nel modo in cui ci rende accessibile l'inconscio di ciascuno dei personaggi, sia la parte esteriore e quindi il ruolo che ciascuno di loro riveste, sia il livello sotteso del loro subconscio e quindi di come l'emotività di ciascuna possa trasparire agli occhi del pubblico, sincere e solide per la forza delle proprie idee.
Madre Miriam è convinta della purezza di Agnese e mette in dubbio le pratiche psichiatriche della la Dott.ssa Livingston che a sua volta dimostra un'esasperata ostilità nei confronti della Chiesa mettendo in dubbio tutto, ma proprio tutto, ciò che predica e risolvendo qualsiasi fatto dell'esistenza umana e spirituale con una spiegazione rigorosamente logica. Agnese invece...Agnese ha paura di un mondo e di una vita che per troppi torti subiti fin dalla nascita non ha mai vissuto.
La cosa che colpisce di più non è tanto la storia in se (che già all'epoca della stesura non era una novità alla cronaca) ma la metamorfosi in media res dei personaggi che la consapevolezza dell'evolversi dei fatti e delle situazioni porta in fine a sovvertite totalmente il proprio punto di vista.
Come in ogni narrazione di questo genere alla fine si scopre che i cattivi non sono poi tanto cattivi e che i buoni, così tanto buoni come sembrano, non sono e dato che l'unico vero delitto in questo caso sarebbe svelarvi il finale. Vi basti sapere che, se avete scoperto che ne esiste una versione cinematografica non perdete tempo a guardarla, questa versione teatrale è decisametne migliore. In conclusione se credete che si tratti del solito biblico scontro tra purezza della Fede e cinismo della Razionalità vi sbagliate di grosso perché arrivati al bandolo della matassa non ci saranno ne vinti ne vincitori.
Fabio Montemurro
15 ottobre 2015