Recensione di O taccia per sempre spettacolo in scena al Fringe festival dal 8 al 14 giugno 2015
“immaginate improvvisamente di non vedere più, non tutta l’immagine, ma parte di essa”
Le immagini del nostro passato sembrano perdere inarrestabilmente definizione giorno dopo giorno. Voci, visi, sensazioni, espressioni ed emozioni si allontanano a passo costante e inesorabile dalla parte più lucida della nostra mente; si scorge solo più un magma confuso di suoni e colori, poi un puntino piccolo e insignificante, infine il nulla.
Sembra quasi di perdere la vista, ma solo a momenti e solo di certe parti della nostra coscienza.
Ecco di cosa tratta il testo ad opera di Pamela Sabatini: di un viaggio alla scoperta di sé stessi, di quella parte remota della memoria abbandonata nei meandri dell’inconscio.
Utilizzando la forza evocatrice di danza, canti, musiche e filastrocche tradizionali della sua terra d’origine, la Calabria, l’attrice ci racconta, con l’aiuto di Valeria Bianchi e del suo organetto, la sua personale esperienza alla ricerca di quel passato da lei ignoto o dimenticato.
Le vecchie storie della sua famiglia, i ricordi lontani, il presente e le fiabe si intrecciano senza ordine né schema per sottolineare il carattere distorto e frammentario della memoria, sconfinando però in una confusione rappresentativa forse esageratamente faticosa per il pubblico.
Il tema della vista compare in tutto lo spettacolo in varie versioni, tra le quali colpisce la narrazione fiabesca di Cheperocchio, una ragazzina curiosa che, convinta dalla madre dell’inutilità della suo interesse nei confronti dei dettagli e delle piccolezze, perde improvvisamente la facoltà di vedere. La bambina, portata dal grande Robot magnetico per curare la malattia, scopre che solo la memoria le può ridare la vista. Accade dunque che, proprio come l’autrice, Cheperocchio decide di intraprendere un viaggio tra i suoi ricordi.
Lo spettacolo, per quanto a momenti un po’ impreciso nell’interpretazione, ha la sempre apprezzabile capacità di strappare un sorriso al pubblico e di indurlo al tempo stesso a ragionare.
Forse l’unico modo per capire le ragioni del nostro carattere e delle nostre stranezze è quello di ridurre la densa nuvola di nebbia che circonda il nostro passato.
Come possiamo pretendere di sapere chi siamo se abbiamo dimenticato chi eravamo?
Francesca Scanavino
15 giugno 2015