Lunedì, 25 Novembre 2024
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I drammi della voce umana di Jean Cocteau al Teatro Sala Uno

Recensione de La voce umana, in scena al teatro Salauno l’8 - 9 - 10 maggio 2015

I nomi dei protagonisti? Non si conoscono e poca importa, d'altronde. La storia? È già iniziata in scena, anzi, in realtà è già finita: una qualunque storia d'amore. Una vicenda come tante, un rapporto che si spegne, che balbetta e con sofferenza tenta ancora di alimentare l'ultimo anelito  attraverso il mezzo di comunicazione per eccellenza il telefono. Ed è lui il vero protagonista dell'unico atto, "La voce umana" di Jean Cocteau, diretto da Viviana Di Bert e interpretato da Gloria Annovazzi in scena al Teatro Sala Uno fino al 10 maggio. Il monologo di culto della drammaturgia del Novecento, di cui resta indimenticabile la trasposizione cinematografica con Anna Magnani diretta da Roberto Rossellini, si consuma tra le mille sfaccettature di un animo e di una sola voce umano, quella di lei, unica e sola attrice sul palcoscenico.

 

Accompagnata da rimorsi, rimpianti, rabbia, dolore e brandelli di malinconica tenerezza, se inizialmente cerca di offuscare il suo lancinante strazio fingendo una condizione di ritrovato benessere, con il protrarsi della telefonata inciampa, naturalmente, in un escalation di nudi sentimenti, denudandosi lei stessa, corpo e anima, a simboleggiare come il velo e la maschera d'inizio monologo, si sciolgano inevitabilmente sulla pelle della donna: via prima la pelliccia, quindi la parrucca e le scarpe, fino a restare con la sola camicia da notte abbassata sui fianchi. Corpo semi-nudo e vulnerabile proprio come l'intimo sentire dell'attrice, appeso e dondolante su un unico filo conduttore, quello del telefono.

Come detto, quindi, il vero protagonista è proprio l'apparecchio, deus ex machina di tutta la vicenda, il quale, con le sua bizze, le sue continue interruzioni e le sue improvvise interferenze rende il quadro ancora più sofferto e devastante per l'interlocutrice, l'unica che il pubblico a mano a mano impara a conoscere, a capire, ad analizzare e, infine, forse, anche a commiserare. L'altra voce, quella di lui, non la sentiamo, ne siamo all'oscuro e, d'altro canto, è giusto così: siamo proiettati interamente nell'universo di lei, in un piccolo stralcio della sua realtà, catapultati in uno dei momenti più difficili e tribolati della sua vita e, seppur per un solo atto, una sola fugace ora, riusciamo ad entrare a contatto con tutte le sue emozioni, le sue infantili richieste di "ultima telefonata" e, quindi, di estremo e finale contatto con l'uomo amato. A rendere ancora, inoltre, più profondo, malinconico ed empatico il tutto è la colonna sonora: una ridondante e ciclica “Counting out time” dei Genesis (con cui lo spettacolo ha inizio e che ritorna qua e là anche durante lo svolgimento) e “Les amants d’un jour” di Edith Piaf che chiude ed accompagna il finale.

Gloria Annovazzi, l'attrice, è ottima nel fornire l'immagine e il dipinto di una donna distrutta, privata della sua unica ragione di vita: rantola e si rotola per terra attorcigliandosi il filo del telefono intorno, quasi a non voler mai più staccarsi da quell'unico legame ormai rimasto tra lei e l’uomo che ha perso. Così quello strumento diventa l'ultimo mezzo che, con tutte i difetti del caso - che rendono benissimo l'idea di amore agli sgoccioli - al quale lei è legata flebilmente al suo uomo e sul quale poter proiettare e scaricare speranze, emozioni, illusioni e pianti: “L’altra sera mi sono coricata con il telefono.. lo so che sono ridicola, ma il telefono unisce, va fin da te.. questo filo è l’ultimo che mi riallaccia a noi”. 

L'importanza drammatica del monologo dell'unico atto, ci è resa, infine, dalla scenografia, essenziale, nuda e, a tratti, anche un po' assurda a rispecchiare precisamente lo stato in cui versa la donna, ormai abbandonata del tutto: due stanze fredde che prendono vita non solo grazie alla presenza di lei, ma anche per mezzo delle luci che seguono l'attrice e ne sottolineano i sentimenti; delle pastiglie sparse sul pavimento, sintomo di un atto estremo non consumato del tutto ed un lungo, intricato, intreccio di fili telefonici che dal soffitto scendono fin giù al pavimento, simbolo moderno di un dramma quotidiano; il tutto incorniciato ed ospitato al di sotto del suggestivo ed incantevole arco di pietra, proprio a ridosso della Basilica di San Giovanni in Laterano. Estetica e dramma umano in questa costante e lenta tempesta di sentimenti e di crolli emotivi: il tutto finisce, col buio.

 

Federico Cirillo

 

 

12 maggio 2015

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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