Recensione de Il vasetto di Pandora, in scena al teatro Agorà dal 14 aprile al 3 maggio 2015
Ma in fondo il teatro cos'è? Sembra questa la domanda che i protagonisti de Il vasetto di Pandora vogliono provare a porre al proprio pubblico. Ed è sempre questa, in fondo, la medesima domanda che lo stesso pubblico pare porsi alla fine dello spettacolo. D'altronde è sempre quella la solita incognita, alla quale neanche gli attori riescono, infine, a darsi una risposta, così presi e affannati a cercare, anzi, a cercarsi un senso, che in quel trambusto hanno perso la domanda.
E se il teatro fosse la vita? Un'altra domanda. Anzi, se la vita fosse teatro? Bè, allora sì, sarebbe proprio come gli attori, no anzi, gli uomini prima che attori, de Il vasetto di Pandora vorrebbero che fosse: un post-apocalittico scenario di mondi distorti, squilibrati o in equilibrio precario sul filo del paradosso; un non-senso ridondante di dialetti che si rimpallano con l'italiano ardito, il francese imitato, il catalano urlato; l'un l'altro quasi fosse un match di ping-pong, anzi un miss-match di tennis che delle volte è un singolo, altre è un doppio, altre ancora è uno squash, soli, contro un muro.
Così il mondo reale del teatro è solo fumo, fuliggine, fuffa, sterco e scarafaggi, preso e incagliato nella ragnatela del divertessement letterario, del doppio senso spinto o della spenta onomatopeia usata al posto di mille e più fluenti rime, della flatulenza esasperata, degli umori del corpo, dello spirito e della mente. La gente si sa, ride di tutto, per tutto e con tutti, nascondendo dietro quel velo di serenità la maschera dell'ipocrisia: la compagnia lo sa, eccome se lo sa e, se così fan tutti, ci provano anche loro, ma con sincerità. Nudi, ma nascosti da ambigue maschere, quelle del varietà, dell'Armageddon infinitesimale che si ripete in loop in una sequenza di finimondo, gli attori (questa volta sì, prima che uomini) giocano con le facce, con le espressioni e con la meraviglia: lo stupore è di chi non sa, di chi non capisce e ride e di chi ride, proprio perchè ha capito... che non vi è nulla da capire.
D'altronde il teatro può essere compiuto solo da un artigiano che ne conosca e ne abbia vissuto tutti gli aspetti e le dimensioni. Non certo da un intellettuale, recitano - anche loro - le note di regia: e dunque eccoli gli artigiani dello spettacolo, a mani nude, ferite dalle schegge di verità e di vita che fragorosamente schizzano ovunque fendendo pelli e squarciando "cieli di carta", si mostrano al teatro della realtà o alla realtà del teatro o al teatro del teatro, o nel teatro, fuor dal teatro, con il teatro e... insomma fate voi.
Cos'è il teatro dunque? Che importa... non v'è teatro senza reale e quando è lo stesso reale a diventar spunto di teatro, in quanto realtà di un testo teatrale stesso, bè non c'è niente di meglio che uscire e rientrare dal sipario, far calar quinte, maschere e braghe e mostrarsi ciò che si è. Così l'altra domanda: ma l'attore recita il protagonista, o è il protagonista, dietro le vesti di giullare post-atomico che interpreta l'attore? E nel potpourri di ciò che straripa dal vasetto di Pandora, anche il fonico e il regista diventano strumenti del palcoscenico, protagonisti chiamati in causa, da chi la causa l'ha già persa in partenza e tenta di racimolare ciò che resta del teatro, di quel che alcuni si sforzano a chiamare teatro, quel che altri si vantano di considerare teatro, quel che pochi poi, fanno...il teatro. Sudore, improvvisazione, coraggio e determinazione non mancano di certo - forse delle volte è anche troppa da trasparire in evanescente contrasto con il messaggio iniziale - ma insomma "Send in the clown" e che lo show della vita vada avanti.
Avete capito? No? Che importa, signori... è il teatro.
Federico Cirillo
28 aprile 2015