Recensione de Il ritorno a casa in scena al Teatro Vascello dal 24 al 29 marzo 2015
Due piani di un'abitazione, un salotto all'inglese un po' vecchio, e una specie di famiglia, per dirla alla Pinter. In questa casa ci sono tutti i membri maschili del nucleo: la figura femminile è scomparsa molto tempo prima, sono tre fratelli e un padre di famiglia che nel corso del tempo si sono adattati alla vita che gli è spettata, accompagnati dalla figura dello zio, che da parente stretto costituisce un elemento esterno ed intimo allo stesso tempo. Uno dei figli, Teddy, è appena tornato dal Nuovo Mondo dopo sei anni di silenzio insieme alla moglie Ruth e decide di presentarla ai familiari, rompendo il loro equilibrio tutto al maschile e facendosi testimone inerme di una serie di anomali accadimenti che ne conseguono. O meglio, tutt'altro che anomali, se ci si pensa un po': l'opera affronta le meschinità insite nella natura dell'uomo, l'inesauribile conflitto tra i due sessi, il maschilismo unito alla mercificazione della donna, il retrogusto ipocrita della società borghese in un misero deserto d'amore.
Il testo di Pinter unito alla regia di Stein produce un violenta collisione psicologica che urta lo spettatore attraverso la lentezza, i silenzi e l'assenza delle reazioni più consone, circonfuso di un'aurea surreale e cangiante, dal fascino indaco.
E' dal lontano 1965, anno in cui Stein ha avuto il piacere di assistere alla prima rappresentazione a Londra per la regia di Peter Hall, che il regista desidera mettere in scena Il ritorno a casa: dopo cinquant'anni, grazie alla produzione di Teatro Metastasio Stabile della Toscana e il Festival dei due mondi di Spoleto, concretizza il suo progetto con gli stessi protagonisti de I Demoni, evento teatrale di pochi anni fa in cui il tempo della vita e il tempo del teatro sembravano quasi coincidere in dodici ore di pièce, tipologia di evento a lui molto cara.
Attori eccellenti in un'operazione estremamente complessa: non c'è parola che non venga vissuta con tutto il corpo, da sommare all'individuazione di registri particolarissimi per ogni personaggio, fino a credere di avere di fronte artisti stranieri che si cimentano nell'italiano.
L'imprevedibilità domina sulla pièce, molto evidente nel bipolarismo così naturale e fluente della figura del padre di famiglia, che ciclicamente e contraddittoriamente è in grado di elogiare la donna fino ad arrivare alla più violenta umiliazione verbale all'interno di una stessa conversazione. E lei all'apparenza non reagisce, rispetta l'andamento degli uomini che vi si confrontano, accetta e quasi promuove le ferite verbali e fisiche che le vengono inferte, e con la pazienza e l'impercettibilità di movimento di un bocciolo che si schiude, manovra la situazione fino a soggiogarli, misteriosa e seduttiva, avendo appreso quella stessa crudeltà.
Ironia, sfumature, desiderio, meschinità: ci sono tutti gli ingredienti necessari alla ricetta per un indagine sull'inquietudine nel rapporto tra i sessi, inseriti in un'opera che dopo aver attraversato interi contesti storici e generazioni di pensieri diversi, non riesce a smettere di turbare le coscienze.
Claudia Giglio
29 marzo 2015