Recensione de Uomini senza donne, in scena al teatro Golden dal 27 gennaio al 22 febbraio 2015
Una brillante commedia, campione d’incassi negli anni’90, capace di fare ripetutamente il bis in tutti i migliori teatri d’Italia; un duo giovane, forse uno dei più amati dal pubblico femminile contemporaneo (e non, ci sentiamo di asserire); un teatro moderno, adibito a mo di studio televisivo che pone gli attori quasi a contatto diretto con il proprio pubblico, travalicando la dimensione scenica e dove gli stessi spettatori, a tratti, entrano e quasi accompagnano i vari, fulminei atti; trama riadattata, riscritta e cucita a puntino per interfacciarsi alle problematiche sociali e giovanili del nostro presente, tra precariato lavorativo, isterica instabilità emotiva e condivisione, forzata, di spazi vitali.
Tutti ingredienti, questi, che, potenzialmente, potrebbero creare il giusto mix tra divertissement e amara coscienza di un flebile equilibrio esistenziale: tra il lavoro che viene e che va – di solito va – e speranze tradite, tra illusioni deluse e cinico sentimentalismo, che mette a repentaglio anche amicizie ventennali, tra stoccate ironiche e crude riflessioni sulla mesta realtà.
Questo l’intento del regista Angelo Longoni, nella sua rivisitazione di Uomini senza donne, in scena in questi giorni presso il Teatro Golden di Roma: a farla da protagonisti Ludovico Fremont, già apprezzato e conosciuto dal grande pubblico per i numerosi ruoli televisi – basti pensare a “I Cesaroni” – e Valerio Morigi, altro enfant prodige delle serie televisive (star della celebre “L’onore e il rispetto”).
Così, dopo anche il successo cinematografico con la pellicola omonima, Longoni torna al teatro con un riammodernamento dell’opera: azzeccate le sceltestilistiche dello spazio abitativo (l’appartamento sembra quello tipico di chi, studente/lavoratore, è costretto a barcamenarsi tra uno stipendio aleatorio e un affitto sempre pressante), giusta la caratterizzazione dei personaggi (il batterista trasandato, nevrotico con accenni di alcolismo – interpretato da Fremont – e lo scrittore/sceneggiatore cinico, sicuro di sè e fortunato delle donne) e ben ritmata la scelta, veloce e dinamica, delle interruzioni tra i vari mini atti. Buono il lavoro del regista a ben dosare la giovanile e gioviale freschezza della coppia di attori che, seppur a tratti imbrigliati in dei lassi di naturalezza, alleggerisce il tema agro-dolce della commedia, rubando sorrisi e approvazioni al numeroso pubblico.
Questa nuova veste, con la quale lo spettacolo si affaccia al pubblico, mostra tutti i caratteri tipici delle due facce del trentenne contemporaneo: alla ricerca di una stabilità emotiva e professionale, ancorato all’immatura illusione di una realtà a loro peso e metro, si ritrova, suo malgrado, alle prese con un mondo che li vuole maturi a tutti i costi. Duplice la reazione, doppio il binario della risposta emotiva: chiudersi nell’incanto post-adolescenziale, alimentato da musica, estro ed alcool che tutto può ancora succedere e cambiare o rifugiarsi in un cinismo disarmante ad oltranza, cercando, invano, nel vasto universo femminile la musa ispiratrice di un “genio” ormai svenduto al miglior offerente.
Il tutto porterà i due ad uno scontro finale, dove ad uscirne vincitore è solamente l’impotenza di affrontare le proprie debolezze e l’incapacità di reagire alla meschinità del mondo.
Federico Cirillo
2 febbraio 2015