Sono in sala, è piena, sono le 21, lo spettacolo non è ancora iniziato, dietro il sipario nessun segno di vita e il pubblico inizia a farsi irrequieto.
Davanti ai miei occhi inizia un concitato scambio di noccioline e pistacchi, mentre da fila a fila rimbalzano i messaggi urlati e gesticolati che si fanno conoscenti e amici separati dalla dura legge della fila e del numero di posto stampati sul biglietto da poco comprato.
Sono le 21.07 inizia ad avvertirsi qualche movimento, un verso, un suono, qualche parola.
Sono le 21.12 un paio di compagnie che avevano socializzato vengono interrotte nel bel mezzo di concitate discussioni dal calare delle luci... il sipario si apre ed inizia un surreale dialogo tra due smartphone nel nuovo slang informatico degli anni 2000 poi il sipario si chiude e si riapre: sul palco c'è Matteo D'Inca e Rivera arriva da dietro, irrompe tra le file del pubblico, vuole dare ordine alle cose, a Roma, all'Italia...
Da qui è un susseguirsi di momenti più leggere e a tratti esilaranti e momenti più riflessivi, i temi sono svariati: i cellulari (futura razza dominante del pianeta Terra), la Sanità che non va, l'omofobia, gli euro (che non ci sono e che quando ci sono valgono quel che valgono), il poter tornare bambini, indietro nel tempo, per cambiare (forse) il futuro, l'amore che ormai esiste (grottescamente) solo su Portaportese, la politica italiana degli ultimi mesi.
In tutto questo c'è spazio anche per la canzone, testi e musica del comico romano che oscillano nello stile e contenuti tra De André e De Gregori e anche per proiettare inserti video e far recitare e cantare Pigna.
Lo spettacolo procede, si sussegue davanti ai miei occhi e gli occhi del pubblico che ride ma a volte si blocca un attimo, perché non tutti i giochi di parole sono intellegibili al primo colpo, e infatti verso i 3/4 dello dello spettacolo l'attenzione generale inizia a calare, tra una buona parte del pubblico si fa uno sforzo di concetrazione considerevole per seguire, si percepisce talmente tanto che lo stesso Rivera sembra accorgersene e correre ai ripari sdrammatizzando.
Si arriva alle ultime battute che si sente nell'aria tra il pubblico un desiderio impellente di finale che "stranamente" sembra esaudirsi poco dopo la formulazione.
Alcuni tirano un sospiro di sollievo ma soddisfatti,altri sbattono le palpebre come per uscire da una trance e prendono a ridere sulla battuta di mezz'ora prima, altri ancora, come il sottoscritto, si alzano titubanti per stirarsi le membra e infilarsi il cappotto.
Titubanti?
Sì titubanti, perché nella mente si fa strada un pensiero "Sipario chiuso così,sulle note di Vasco Rossi, e tutto questo silenzio non sono da lui" e infatti iniziano a sentirsi prima dei rumori poi dei mormorii poi un urlo e il sipario si riapre su D'Incà e Rivera,con in testa una corona (o aureola?) di lucetta di natale che cortocircuitano, completamente nudi (per la mezza sorpresa di chi se lo aspettava e per il mezzo sconforto di chi non se lo aspettava e considerando lo spettacolo finito col pensiero erano già o per strada a fumare la tanto attesa sigaretta o addirittura sulla soglia di casa)... è l'ultimo pezzo,una decina di minuti, poi il sipario si chiude una volta per tutte e lo spettacolo finisce davvero e possiamo scemare fuori dalla sala, chi più, chi meno soddisfatto da uno spettacolo dai contenuti vari e spesso buoni e dalle più o meno legittimate critiche alla società contemporanea che perde i colpi, a volte, nel modo di porsi, cercando di riportare in teatro il linguaggio teatrale stesso ormai fagocitato e digerito da una televisione che ne ha accorciati e sfasati i tempi, smontato e riassemblato a suo piacimento le regole.
Fabio Montemurro
9 gennaio 2015