Lunedì, 25 Novembre 2024
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Go down, Moses: Castellucci scuote Roma col suo dramma della vita

recensione di Go down, Moses in scena al teatro Argentina dal 9 al 18 gennaio 2015

Il sipario è già aperto quando il pubblico comincia ad entrare in sala. Molti dei presenti non se ne accorgono ma lo spettacolo è già cominciato, prima del previsto. Difatti al posto del sipario è posta una tela bianca (in gergo tulle) che funge da filtro e che rimarrà lì per tutta la durata dello spettacolo. Lascia intravedere cosa avviene ed allo stesso tempo dà possibilità al palco di vivere in una dimensione tutta sua. 

 

Luci accese in sala, posti che progressivamente vengono riempiti. Ora d’inizio dello spettacolo ore 17:00, in realtà sono già almeno 10 minuti che i presenti sono frastornati. Fra il tulle ed un secondo sipario si muovono attori, uomini e donne che nel limbo dell’immaginario sembrano impersonare noi stessi: quel pubblico che quando si interfaccia con uno spettacolo o una mostra d’arte assume assurde pose, fa finta di capire cose inaudite ma nel profondo non fa che recitare a sua volta.

Le luci si abbassano. Lo spettacolo comincia ufficialmente, è tempo di dare un primo scossone alla platea. Quella che ricorda una rotativa comincia a prendere sempre più velocità: dall’alto, mentre il rumore diventa sempre più rimbombante, cala una parrucca che ne viene risucchiata. Questa sembra esser simbolo delle superficialità dell’uomo che proprio nell’acconciatura dà agli altri la prima idea di ciò che vuol apparire. Quella descritta da Romeo Castellucci, regista e sceneggiatore insieme a sua sorella Claudia di Go down, Moses, è proprio la ricerca di una profondità, d’amore, che sembra ormai estinta. 

Una donna, che si trova in un bagno pubblico improvvisamente si sente male: sta per partorire. Il sangue invade il suo animo. Una scena straziante che lascia la platea di stucco. Il feto viene abbandonato, se di abbandono si può parlare, per un motivo fondamentale: in una società così superficiale, che ha dimenticato l’amore, lei non può che far di suo figlio un nuovo Mosè, abbandonato in un fiume Nilo contemporaneo, dal quale spera potrà salvarsi con l’aiuto divino e tornare per portar gli uomini sulla retta via. Nel frattempo il tulle diventa schermo che proietta frasi, emoticon e si rapporta con la platea in maniera inusitata, una pagina digitale nella quale l’autore proietta parte della sceneggiatura.

Nel momento in cui la donna si troverà in ospedale per accertamenti, uno strano sfasamento spazio/temporale porterà gli astanti nella preistoria. Anzi in un momento fondamentale della preistoria. In una caverna sta un gruppo di cavernicoli. Una donna si accorge che suo figlio, di pochi mesi, non dà più segni di vita. In quel momento il dolore scuote a tal punto l’anima dell’essere umano che la madre decide di seppellire il corpo del figlio ormai defunto. Un atto che segna la vera evoluzione umana. Seppellendo quel corpo la donna capisce che è necessario avere un luogo nel quale ricordare l’anima del figlio. Con quel preciso atto nasce la consapevolezza dell’amore, dell’anima di un bene superiore. Ma allo stesso tempo nasce una paura più grande, con essa l’angoscia per ciò che non possiamo sapere. 

Qui sta la differenza fra l’uomo e gli altri animali, nella consapevolezza, che nacque millenni or sono con quel gesto. Bello vedere la reazione uomo/donna al lutto. Se l’uomo supera il dolore cercando nell’atto sessuale il modo per riparare a quanto perso e creare così una nuova vita, la donna, con coraggio e forza, lancia un segnale d’aiuto verso il sublime: SOS. Così anche la donna contemporanea, madre del nuovo Mosè, si ritroverà in quella stessa caverna dove tutto cominciò. Sta lì, pronta ad abbracciare  quel dolore e quell’amore che solo noi possiamo comprendere ma che in parte stiamo perdendo accecati da superficialità che fanno diventare i nostri occhi vitrei ed i nostri petti ameni.

Romeo Castellucci regala a Roma ed all’Italia uno spettacolo che fa bene al teatro contemporaneo. La platea dell’Argentina, dopo la recente esperienza latelianna di “Natale in casa Cupiello” è già più maturo ma non ancora del tutto pronto per digerire bene uno spettacolo di questo tipo. Non a caso questa sarà l’unica messa in scena in Italia per un regista/autore più che apprezzato all’estero. In tal senso riflettere anche la scelta del titolo, in inglese.

Un plauso ad Antonio Calbi, direttore del Teatro di Roma, che con gli spettacoli in cartellone per questa stagione sta provando a dare una scossa a una città che ha bisogno di confrontarsi con spettacoli come Go down, Moses.

La messa in scena risulta alla fine più che efficace. La scenografia è curata fin nel minimo dettaglio e rende lo spettacolo ancora più godibile. Il sonoro ha note positive, rumori forti ma non fastidiosi che scuotono il petto, e negative, spesso (in particolar modo ai piani alti) la voce degli attori non arriva chiara. 

Ultima riflessione sta nel ruolo dell’attore. In questo teatro, dove il regista è totalmente padrone della scena (come Castellucci così Latella) l’attore ha molto meno impatto. La sua interpretazione, a detta anche della platea presente, non è fondamentale ai fini della riuscita dello spettacolo, contano di più le scelte della regia, quasi da cinema, che inevitabilmente offusca tutto il resto. 

 

Enrico Ferdinandi

(@FerdinandiE)

 

11 gennaio 2015

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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