"1° atto": Munch. Quando dipinsi l'urlo
con Ruben Regillo
fondale: Sergio Ragalzi
"2° atto": Schiele. Vive morendo ogni cosa
con Pino Censi e Arianna Ninchi
inferriata (scenografia): Claudio Palmieri
ideazione e regia: Elsa Agalbato e Fabio Sargentini
assistente regia: Sonia Andresano
suoni: Paolo Guaccero
scenotecnica: Paolo Nunzi e Franco Scorza
luci: David Barittoni e Giuseppe Tancorre
coordinamento tecnico: Rocco Perna
ufficio stampa: Arianna Antoniutti
Munch e Schiele. Un tête-à-tête teatrale, di Fabio Sargentini ed Elsa Agalbato
Lo spettacolo, che già nella breve sinossi del comunicato stampa incuriosisce quanti non avessero ancora confidenza con L'Attico, entusiasma chi già ne conosce la cifra piena e sofisticata che ne caratterizza l'approccio.
L'ensemble Agalbato-Sargentini, che già in passato mise in scena interessanti letture di Pirandello e Cocteau, dando luogo ad un'operazione “performativa” che col Teatro si sublima nell'assoluto, costruisce in quest'occasione un emozionante e squisito edificio drammaturgico recuperando non già una “narrativa” autoriale bensì un'interessantissima letteratura storico-artistica, quale appunto le riflessioni di Munch e Schiele.
La mise-en-scene, di fatto un'opera in due atti, è introdotta dalla cara presenza del Sargentini.
Un rapporto quasi erotico con la morte e con la vita percorre le due piece. La prima, costruita attorno all'Urlo, ne evoca il midollo: un Munch morente recita il verbo infuso nella sua più celebre opera, e un fondale “ragalziano”, nell'itinere di quella disperazione esistenziale, smette il suo ruolo citazionista acquisendo quello più feroce di macchina scenica; una scena che è spazio modulato dal genio del suo regista, che si fa architetto d'una poesia che attraversando la cesura del sipario entra di netto nel dramma di Schiele, nello spazio immateriale di un “24° giorno di prigionia”. Lì la poesia del dramma colloca il suo svolgersi: Schiele detenuto per molestie (denuncia poi rivelatasi infondata in tribunale), soffre l'inopportunità d'un cuore così candido in una società crudamente ipocrita; il suo fascino per il corpo gli valse un'etichetta di depravazione, ben lungi da quell'oggettiva e più complessa verità, non priva di una diffusa “tenerezza”, che invece che lo vedrà morire di febbre spagnola, poco dopo sua moglie, a soli 28 anni.
Costretto in cella, fugge nel suo mondo, nascondendo ai suoi occhi la violenza all'interno di quello stato di prigionia, rammentato da sporadici ordini, dati con la voce di Sargentini; la regia che si fa madre e carceriera, che decide dove e come entra il dramma nel testo, con un'azione profondamente e geneticamente concettuale, che sintetizza ex ante i nodi e le immagini di una situazione e di uno spazio in cui si compie la vicenda teatrale di un'artista che arrivando sul palcoscenico ad essere tautologica si conferma mitologica nel mondo reale.
Giuliano Armini
8 maggio 2014
fino al 18 maggio
tutti i giorni alle 19
presso L'Attico
Via del Paradiso 41 (Roma)