"In the greenest of our valleys
By good angels tenanted,
Once a fair and stately palace--
Radiant palace--reared its head.
In the monarch Thought's dominion--
It stood there!
Never seraph spread a pinion
Over fabric half so fair!
[...]
And travellers, now, within that valley,
Through the red-litten windows see
Vast forms, that move fantastically
To a discordant melody,
While, like a ghastly rapid river,
Through the pale door
A hideous throng rush out forever
And laugh--but smile no more."
( "The Haunted Palace" di E.A.Poe, 1838)
Il principio è un naufraggio immobile. Lo spazio scenico minimale: una spiaggia dominata da tonalità cremisi e porpora e un relitto che è una sorta di altare che riecheggia l'âge d'or del Surrealismo.
Non si ha il tempo di mettere a fuoco la scena che iniziano a comparire i primi dettagli. Lentamente muove i primi passi una melodia premonitrice, un incessante intrecciarsi di trame di sintetizzatore che ci avvolge e la nostra attenzione viene catturata da qualcosa di materiale che si muove: delle dita che danzano, poi una mano, successivamente una testa che in realtà è un teschio che in realtà è mr. Peanuts e infine tutto il corpo racchiuso in un frac. Il corpo di un gigante che si muove goffamente sulle note di un moderno valzer che non fa in tempo a strapparci un sorriso che già cade a terra si contrae, stringe le mani sull'addome, sembra che voglia tirarsi via lo stomaco e invece no partorisce una gonna rossa fuori e bianca dentro e dal guscio-gonna esce fuori una ragazza che inizia ballare un valzer con la morte in frac e poi depone la morte sull'altare-relitto ed inizia il viaggio un interminabile susseguirsi di naufragi, di personaggi di situazioni.
Da questo momento lo spazio scenico diventa attore e l'attore diventa spazio scenico ponendo lo spettatore davanti ad un susseguirsi di fatti, personaggi, luoghi, situazioni e rimandi solo apparentemente slegati tra di loro.
Ogni apparizione-dipinto è tratteggiata con parole, delineata da gesti, riempita da descrizioni inusuali, fatta di filastrocche cantate con un preciso ritmo casuale e al contempo non casuale, che è anche il ritmo che pervade l'intera sperimentazione narrativa.
Davanti ai nostri occhi compare e prende vita l'Ofelia di John Everett Millais con tutti ai suo presagi di morte seguita da un uomo che bussa alla porta: un principe storpio e deforme con tante domande e nessuna risposta, il suo Amleto, che non lascia il tempo di dirgli che il suo castello si trova a Kronborg perché sulla scena è già naufragato un marinaio con gli stivali che bussa alla finestra di una fanciulla con la quale passa una notte d'estasi amorosa ed è di nuovo la vita... un bambino tra le mani di un traghettatore su una barca ed il bambino cade in acqua e già dopo la Tempesta Ariel già canta a Ferdinando figlio del Re di Napoli che il padre è affondato con la sua nave. Non si fa in tempo a vedere la morte che già nelle parole dello Spirito dell'aria ricompare la vita ma la visione sta già sfuggendo e al suo posto compaiono un gruppo di ragazzi e ragazze che danzano sui prati immersi nella primavera, una primavera che però si vede costretta a lasciare il passo a quella Peste che falcerà tutti nella sua insaziabile fame di morte.
Nel Caos, nel disordine più totale dell'Universo l'unica legge che può rimettere ordine seppur in modo provvisorio alle tensioni superficiali e non di tutto, anche dell'animo e quindi dell'esistenza umana, è quella dell'Entropia e le molteplici trasformazioni di questa messinscena ne sono la dimostrazione.
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma” ci è stato tramandato da Epicuro e infatti la morte si trasforma in vita,l a vita morte, la morte in vita e così via all'infinito in un eterno circolo e così come tutto è iniziato con un valzer tra Vita e Morte così tutto apparentemente finisce.
La protagonista stessa, dicotomia di Vita e Morte, afferma con un misto di ironia e rassegnazione: “Se vedono barba e baffi, lo chiamano uomo. Se vedono lunghi capelli e seni, lo chiamano donna. Ma guarda! L'anima che sta dentro di loro,non è né uomo né donna.”
La messa in scena di Julia Varley è bel congegnata e nulla è lasciato al caso.
L'illuminazione su tre assi (centrale e i due laterali) è concepita dal basso come ad illuminare dei dipinti e a veicolare lo spettatore ad un punto di attenzione centrale su due piani visuali ai due limiti dello spazio d'azione.
Lo spazio scenico attraverso i colori e “la quasi assente” scenografia vine a creare un senso di straniamento dello spettatore che si ritrova a cercare dei punti riferimento visuale e di riempimento dello spazio davanti ai suoi occhi a cui appigliarsi.
L'uso della musica (come anche di ogni altro minimo dettaglio all'apparenza insignificante) è veicolato alla materializzazione e momentanea esistenza di atmosfere scenografie immagini comparse protagonisti comprimari che ci sono e al contempo non ci sono.
I riferimenti artistici, culturali, metateatrali, folkloristici disseminati all'interno dello spettacolo sono infiniti. Si parte da Buñuel e Dalì per passare a Shakespeare e deviare dal Surrealismo cecoslovacco per arrivare a Bergman solo per citare in minima parte ciò che il mio background socioculturale e il mio bagaglio di esperienze mi hanno permesso di leggere tra le righe ed individuare.
50 minuti che volano via senza rendersene conto totalmente presi da ciò che accade sulla scena sperando, alla fine dello spettacolo, che davvero non sia già la fine.
Fabio Montemurro
11 marzo 2014