Domenica, 24 Novembre 2024
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La Boeheme di Ollè è Straniante, diversa e contemporaneamente senza tempo

Recensione dello spettacolo La Bohème, in scena al teatro dell'Opera di Roma dal 12 al 24 giugno 2018

 

La Boeheme secondo Ollè: Scompare Parigi, rimane Mimì dalla gelida manina

 

Cancellate tutto ciò che ricordate a proposito de La Boheme. Cancellate Parigi, mettete da parte l’Ottocento e la Scapigliatura con tanto di soffitte, artisti, sospiri e quell’incanto un po’ d’antan della metropoli dai cieli bigi. Estraniati da tutto questo, catapultatevi in un non meglio identificato ammasso di palazzoni periferici in stile Manhattan anni ’80-’90, magari in quella Brooklyn tutta ferro, luci al neon, nebbia e fumi di spirito ben lontana dalla citta de la Tour; datele un tocco di lingua, cadenza e sfumatura francese qui e lì e fate recitare tutti i protagonisti, in abiti contemporanei tipici di una decadenza e di un logorio attuale, con l’originale testo che fu di Giacosa ed Illica, accompagnato dalle memorabili musiche del maestro Puccini: ed ecco La Boheme di Alex Ollè, al teatro Costanzi fino al 24 giugno.

Dal debutto dell’opera di Puccini son passati 120 anni e il mondo di oggi assomiglia poco alla romantica Parigi dell’Ottocento – esordisce il regista spiegando l’idea del suo allestimento da cui Parigi scompare – Le città, soprattutto le grandi metropoli del XXI secolo, sono ormai diventate entità inaccessibili nelle quali il mondo della bohème (…) si diluisce nel sottomondo sociologico delle periferie, spesso degradate e, quasi sempre, abitate dalla grande diversità culturale scaturita dal fenomeno contemporaneo della migrazione intercontinentale”. 

È lo stesso Ollè a raccontarcela in questi termini: Parigi viene ridotta all’osso e si intravede e nota a tratti solamente dalle allusioni ottocentesche che ancora sopravvivono nelle arie. Certo il senso di straniamento e di iniziale difficoltà comprensiva nell’osservar il bizzarro incontro tra il grigiore sub-urbano di una megalopoli contemporanea e le esclamazioni in tipico stile bohèmien, fanno anche sorridere, ma al regista anima della Fura, già autore di una visionaria Madama Butterfly in salsa e de Il trovatore di Verdi ambientato in una guerra atemporale, si riconosce sempre il merito di osare e di guardare lì dove il purismo dell’opera ogni tanto si inerpica e si sofferma a rimirarsi. 

Superato questo primo ostacolo d’ambientazione al quale l’occhio e la mente si abituano quadro dopo quadro, si passa al messaggio che Ollè vuole trasmettere nella sua Boheme. La Mimì (Louise Kwong) sofferente e tisica, la Musetta (un’ottima e vibrante Olga Kulchynska) civettuola, frivola ma anche sensibile ed in fondo buona, i quattro artisti (Giorgio Berrugi, Simone Del Savio, Massimo Cavalletti e Antonio di Matteo) scapigliati, squattrinati, un po’ illusi e sempre innamorati: li osserviamo attraverso piccole e semi-oscure finestrelle, come se il pubblico fosse l’osservatore di varie vite che, a mano a mano, si illuminano, fioche, al lento spegnersi di una lampadina tremolante. Il sottomondo sociologico, come lo ha descritto lo stesso Ollè, si presenta in tutto il suo decadente splendore, scena dopo scena, grazie anche ad un perfetto e sempre ingegnoso e imponente gioco di scenografie. Corrono sul palcoscenico ora i palazzoni in ferro nelle cui stanze prende vita il cammino del fato che rende reale l’incontro tra Rodolfo e Mimì; li seguono le vie della città travolta dall’andirivieni natalizio e dalle folte nevicate che, gelide, accompagnano spettatori, orchestra e protagonisti nei locali malfamati e vivi ove umanità si esprime al meglio; si torna infine lì dove il destino decide di compiere la sua ultima fatidica mossa: il dramma di un’anima semplice, recisa via dall’amore come foglia d’autunno in primavera.

Ecco, se all’inizio lo scetticismo e lo straniamento fanno un po’ pensare ad un mezzo passo falso, l’atmosfera lirica del finale rende merito a tutta l’interpretazione e anche alla rivisitazione in chiave odierna (seppur fa sempre sorridere l’immagine di un Rodolfo con il laptop che maledice la priva d’inchiostro penna, o il Marcello che, munito di bomboletta spray qual apprezzato writer di una street art molto banksiana, se la prende con un fantomatico pennello): nel dramma, nella morte e nella fine di una speranza giovanile, non esiste temporalità che regga. 

D’altronde più si invecchia, più ci si convince che La Bohème sia un capolavoro e che Puccini sia sempre più bello, parafrasando Stravinskij.

 

Federico Cirillo

23 giugno 2018

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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