Recensione dello spettacolo Face to Face, andato in scena nei giorni 1, 2 e 3 giugno presso il Teatro Mr Kaos di Roma
Face to Face è una piccola ma corpulenta parabola di stati d’animo, confezionata e fruita in una scatola chiusa, ma è anche una sfida al linguaggio teatrale, alle possibilità evocative di una scena che spezza i canoni del luogo deputato e che si priva dell’ausilio del testo; sfida interessante in un momento storico nel quale il teatro sembra incapace di volerne fare a meno; come del resto sono sempre stati interessanti e avvincenti gli esperimenti dei Fermenti, una delle poche compagnie di improvvisazione teatrale in grado di lavorare sulla narrazione pur non disponendo di un testo, di curare le increspature di carattere dei personaggi pur non conoscendoli fin quando questi non prendono vita sul palco, di strutturare l’intreccio attraverso una squisita combinazione di lacrime e sorrisi, senza che nessuno di questi venga strategicamente indotto.
Lo spettacolo assume una forma precaria, che di fatto muta spesso registro, conservando vigile l’attenzione del pubblico. Il momento di crisi, che preme silenziosamente sin dal principio, emerge dalle pieghe dello spettacolo con una sinistra e conturbante progressione, quasi fosse qualcosa di inarrestabile che sgomita e si insinua nelle piccole, quotidiane gioie della vita dei protagonisti e gran merito in tal senso va senz’altro a una scrittura che, nella sua imprevedibile estemporaneità, risulta sapiente e ricercata, tanto da far facilmente dimenticare l’impianto improvvisativo che contraddistingue questo spettacolo, dalla regia alla drammaturgia, finanche al lavoro degli attori, abili al punto da guidare i propri personaggi verso una maturazione identitaria crescente e appassionante, incarnando una trasformazione fisica, emotiva e relazionale di elevato impatto.
È in questa dimensione che si situa Face to Face, che, abitando in modo impeccabile il peculiare spazio della scatola scenica che lo ospita, riesce ad assimilare il senso di squilibrio dei personaggi, compressi da quattro pareti che limitano i loro movimenti e che li costringono ad un vincolante presente da cui non possono evadere se non attraverso i ricordi del passato. L’assunto del “qui ed ora” improvvisativo non è mai stato più perspicuo, pur non negando alla storia una risoluzione catartica, una speranza proiettata al futuro che, sul finale, determina la tridimensionalità temporale di questo spettacolo. L’intento di creare un’atmosfera intima si realizza per tramite di una sinfonia di perfette coincidenze, che fanno di questo format lo spettacolo ideale per lo spazio che lo accoglie, uno spazio talmente poco convenzionale da imporsi, più che come locus, come autentica scenografia che contribuisce a realizzare una drammaturgia calzante e che dà una direzione chiara e inequivocabile alla pièce. In un certo senso la costringe, perché impone delle restrizioni che diventano stimoli per gli interpreti e che pungolano gli spettatori, d’un tratto scossi dall’impellente necessità di indagare quella verità scenica avvicinandovisi, scrutandola tra le fessure delle veneziane, spiandone gli abitanti come appassionati chirurghi di fronte a un cuore pulsante.
L’audace obbiettivo che si pone la compagnia risente del rischio di questo esperimento nell’irregolare climax emotivo che investe il pubblico, in balia degli sbalzi della storia che, specie in principio, sembra un susseguirsi asimmetrico di inquadrature scoordinate, di evidente ispirazione cinematografica, che accadono in modo volutamente caotico. Il consistente avvicendarsi di gag paradossali pare, ad un occhio poco attento, stonare con i lunghi sospiri grondanti di pathos e commozione. In realtà è proprio in una simile soluzione che dimora la ripagata temerarietà di questo lavoro, che riesce ad incastrare impeccabilmente ogni scena al giusto posto attraverso una sofistica operazione di montaggio che manifesta la grande autorialità degli attori e che si rivela essere lo strumento fondamentale a loro disposizione per forgiare un’opera unica e irripetibile, la più nucleare strategia di significazione del teatro come mezzo di narrazione e come forma di aderenza emozionale con lo spettatore.
Giuditta Maselli
4 giugno 2018