Recensione dello spettacolo Yukonstyle in scena al Teatro Studio Uno dal 15 al 18 e dal 22 al 25 febbraio 2018
Ci sono una giapponese, un nativo mezzo sangue e una canadese vestita alla kawaii: scritto così potrebbe essere l’inizio di una qualche barzelletta sciocca. Se si aggiunge come scenario lo Yukon è impossibile non pensare al remoto territorio del Canada dove si trova il celeberrimo Klondike, regione arcinota grazie alle tante avventure disneyane. Si tratta, invece, di recensire Yukonstyle: un geniale testo della giovane autrice canadese Sarah Berthiaume che la compagnia teatrale BiTquartett, in coproduzione con il Teatro Studio Uno, ha il coraggio di portare in scena per la prima volta nel nostro Paese.
Yuko (Marianna Arbia) è una valente chef giapponese, finita tra quelle lande desolate perché - a suo dire - è il posto con meno suoi connazionali al mondo. Divide la casa con Garin (Lorenzo Terenzi), uno scontroso meticcio del posto che fa il lavapiatti nello stesso ristorante presso cui lavora la coinquilina e deve badare a Dad’s (Marco Canuto), il padre alcolizzato. La loro routine, a cui fa da sfondo una terra immensa, dagli inverni tanto rigidi quanto infiniti, viene rivoluzionata dall’arrivo Kate (Benedetta Rustici) una diciassettenne raccattata per strada mezza assiderata da Yuko, mentre faceva l’autostop conciata come un personaggio manga. Ognuno di loro, in realtà, fugge da una solitudine che non osa nemmeno pronunciare: Yuko ha un motivo segreto per cui ha preso così a cuore le sorti della ragazzina, la stessa che si imbarca in inutili viaggi coast to coast alla ricerca di un luogo da dire proprio mentre l’unica cosa che riesce a raggiungere è una gravidanza indesiderata. Apparentemente, però, è Garin il più problematico: un conflittuale rapporto con il padre, il tormento interiore del nebuloso ricordo di una madre prostituta svanita nel nulla quando lui aveva solo due anni e il non sentirsi totalmente nativo sperimentando ugualmente il razzismo dei bianchi lo rendono irascibile, frustrato, quasi condannato a un destino di emarginazione a cui il caso e l’orrore in cronaca sembrano destinarlo.
Non penso di sbagliarmi di tanto, anche se siamo solo a febbraio, nel dichiarare che Yukonstyle è uno degli spettacoli migliori e imperdibili di questo 2018: una drammaturgia contemporanea impeccabile e ben tradotta da Gabriele Paupini, che ne cura anche la regia; una trama dai ritmi serrati svolta con un utilizzo intelligentissimo degli elementi scenici e splendidi cambi di registro; una narrazione che supera latitudini e culture, perché anche cambiando luoghi e nazionalità la trasmissione del senso di emarginazione, tenerezza e riscatto resterebbero intatti; e poi, loro, gli attori: vedere all’opera professionisti così giovani eppure già straordinariamente credibili nel calarsi ognuno nel proprio personaggio è una benedizione per qualunque spettatore. Artisti e nomi molto più blasonati dovrebbero prendere nota: di come Marianna Arbia dia forma a un personaggio interiormente controllato ma pronto a spezzarsi emotivamente per salvare tutti coloro che ha intorno, quasi a espiare quell’unica azione mancata che rimpiangerà fino alla morte; di come Lorenzo Terenzi renda quasi tangibile il peso di un trauma infantile ormai legato a una pesantissima eredità pseudo genetica: che l’ostile ambiente circostante non fa che ricordagli, aizzandola fino a spingerlo al limite del delitto; di come Benedetta Rustici incarni spassosamente eppure commoventemente l’eterno archetipo della ragazzina sperduta, sopravvissuta per puro caso agli abusi della vita ma che continua a sforzarsi per trovarla entusiasmante. Il tutto senza orpelli o cadute nel melodrammatico, evitando ogni forma di maniera o eccesso. Tra loro non stona di certo Marco Canuto: la sua maggiore esperienza non intacca minimamente il clima fresco e naturalissimo dell’intero cast, grazie a una recitazione di grande sensibilità.
Nello Yukon, in questa storia, succedono molte cose incredibili, alcune soprannaturali altre orrendamente umane. Ma su tutte vince la gioia: la stessa che si prova trovandosi ad applaudire una così grande quantità di talento, concentrata la stessa sera in una sola sala.
Cristian Pandolfino
19 febbraio 2018