Venerdì, 22 Novembre 2024
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Zio Vanja e l’incapacità di reagire

Recensione dello spettacolo Uno zio Vanja in scena al Teatro Ambra Jovinelli dal 15 al 25 febbraio 2018

 

In questa versione riadattata di Letizia Russo di Zio Vanja, uno dei testi teatrali più noti di Anton Pavlovič Čechov, si assiste nel concreto a quello che ormai è diventato il dramma della nostra società.
Čechov scrisse questo testo nel 1897, ed è sorprendente pensare quanto un’opera così lontana sia così vicina ai giorni nostri. Nel dramma, infatti, l’autore russo mette in scena tutte le decadenze, la noncuranza e le pigrizie dell’uomo in quanto essere vivente, se la prende con l’indifferenza della borghesia e dei suoi scarsi slanci di vita mostrando tutta la vacuità e il nulla di cui gli uomini, col tempo, hanno preferito circondarsi. Assistere a Uno zio Vanja è come restare impalati e inerti di fronte alle macerie di una vita a cui si è rinunciato, fingere di voler andare avanti per ritrovarsi sempre al punto di partenza, per non meglio definirlo punto di arrivo.


Nello spettacolo diretto e interpretato da Vinicio Marchioni (zio Vanja), affiancato da Francesco Montanari (dottor Astrov), Lorenzo Gioielli (Serebrijakov), Alessandra Costanzo (Marija), Milena Mancini (Elena), Nina Torresi (Sonja), Nina Raia (Marina) e Andrea Caimmi (Telegin), ogni personaggio rappresenta l’incapacità di agire e reagire; la scena è unica e si svolge all’interno di un teatro di provincia che i protagonisti hanno ereditato in uno dei luoghi fortemente colpiti da un terremoto.
In questo ambiente devastato dalle macerie i nostri personaggi tirano avanti come meglio possono. Non hanno più speranze, non hanno più illusioni, sono stanchi persino di desiderare e trascorrono il loro tempo rammaricandosi dei giorni passati e contemplando i loro fallimenti. Astrov, unico amico di zio Vanja, è stanco della vita di medico e stanco di soccorrere gente sepolta viva o morta sotto le rovine dei terremoti, Sonja è segretamente innamorata di lui senza essere ricambiata, zio Vanja – che si è sempre occupato di amministrare la tenuta della nipote Sonja versando i redditi al cognato, il professor Serebrijakov – non fa che lamentarsi, Elena vive un matrimonio infelice accanto al marito che tutti, invece, considerano un fior fiore all’occhiello, soprattutto Marija madre di Vanja ed ex suocera del professore.
In questo trascorrere del tempo – dove in realtà nulla accade – gli otto protagonisti pensano, ragionano, fanno della retorica; discutono di buoni propositi, in special modo di come l’uomo sia solo capace di distruggere e non di creare, di corrompere e di credere di fare del bene quando invece semina solo solitudine e distruzione, è convinto di amare la vita solo perché ama se stesso e non i suoi simili non comprendendo che, al contrario, dove si pensa solo al proprio bene si finisce col cancellare il bene degli altri e del mondo intero. Perché l’uomo non è stato creato solo per difendere altri esseri umani, ma anche per difendere la natura, le risorse e altre materie prime. E nell’incedere dei dialoghi, nel frattempo, si scopre che tutti avrebbero voluto un destino diverso a partire da zio Vanja (ridotto ad ubriacarsi assieme ad Astrov) che avrebbe fatto meglio a sposare Elena invece di perdere tempo appresso al professore che, alla fine si scoprirà essere un ingrato. Sonja attribuirà il disinteressamento di Astrov nei suoi confronti al suo scarso fascino, Elena verrà sedotta nel frattempo dal dottore stesso e solo quando il professor Serebrijakov se ne uscirà con l’infelice battuta di voler vendere tutto accade ciò che non ci si aspettava accadesse: in un impeto d’ira Vanja punta la pistola contro il professore mancandolo per ben due volte, rinfacciandogli tutto il lavoro e i sacrifici di venticinque anni per portare avanti la tenuta. Alla fine tutto si sistema, il professore ed Elena convengono che sia meglio partire (non senza prima aver riportato la pace e la quiete nella famiglia) e, purtuttavia, nemmeno il gesto estremo di Vanja modifica il suo destino e quello di Sonja che riprendono la loro vita rassegnata e indolente, sempre inviando le rendite della tenuta al professore tornato dalla campagna in città con la moglie.
In Uno zio Vanja insomma sembra di assistere a tanti monologhi quanti sono gli attori: ognuno racconta la propria vita, come è stata, com’è e come vorrebbe che fosse, ma senza far nulla per cambiarla. I personaggi restano ingabbiati per tutto il tempo nello stesso luogo, nello stesso spazio e nello stesso tempo, immutabile, malinconico e monotono.
Lo spettacolo resta piatto, anch’esso fermo su se stesso; eccezion fatta per l’interpretazione degli attori (Montanari meglio in teatro che in tv) si intuisce che tutto il copione è stato studiato apposta per dare alla rappresentazione questo tipo di effetto: la scenografia costruita su un teatro decadente, persino i costumi hanno un che di dimesso e le musiche sono pressoché assenti.
Se l’intento di Vinicio Marchioni era quello di comunicare al pubblico in sala il vuoto con cui ci stiamo arricchendo attraverso il testo di Zio Vanja, ebbene l’operazione è riuscita alla perfezione. Anche la scelta di voler trasformare il titolo in Zio Vanja in Uno zio Vanja è singolare e induce a riflettere.
Perché, come suggerisce il titolo, non esiste più lo Zio Vanja ma Uno zio Vanja che descrive le bassezze e le indeterminatezze in cui ormai è incorso l’uomo moderno.

 

Costanza Carla Iannacone
16 febbraio 2018

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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