Recensione dello spettacolo La guerra dei Roses in scena al Teatro Eliseo dal 19 dicembre 2017 al 7 gennaio 2018
E guerra sia.
Perché è di guerra che si nutrono i corpi, le anime perdute, i pensieri, le azioni. Come ci si arriva ad odiarsi non è ancora dato saperlo, perché quasi sempre l’odio altro non è che il frutto di un grande amore.
Nella storia di Jonathan e Barbara Rose si assiste alla fine di questa grandezza, come scrive nelle note di regia Filippo Dini che cura e dirige il capolavoro di Warren Adler, divenuto nel 1989 un successo cinematografico, La guerra dei Roses, in scena in questi giorni al Teatro Eliseo.
Dini resta fedele alla pellicola, riservandosi piccole licenze registiche tese a sprigionare tutta la potenza emotiva racchiusa in questo testo. È grazie alla trasposizione teatrale che si è investiti di tutte le emozioni umane, grazie anche – e soprattutto – alla impeccabile interpretazione di Ambra Angiolini, Matteo Cremon, Massimo Cagnina e Emanuela Guaiana. I quattro attori in palcoscenico mostrano un’abilità senza misure nel saper condurre un gioco perverso che si manifesta in una lotta all’ultimo sangue, una sopraffazione psicologica e una ferocia che assurge all’incredibile che lascia lo spettatore basito di fronte a tanta crudeltà.
Crudeltà per cosa, poi? A quale scopo? È questo che ci si chiede a sipario chiuso. È questa la domanda che lo spettacolo diretto da Filippo Dini vuole porsi. Che senso ha la guerra, quale sadico piacere provoca in colui che genera così tanta distruzione di massa e che arriva a distruggere persino il suo artefice.
Barbara (Ambra Angiolini) e Jonathan Rose (Matteo Cremon) si conoscono all’università, si piacciono da subito, si amano da subito e si sposano. La loro esistenza non potrebbe essere più perfetta di quello che è: una casa enorme, un lampadario costato una fortuna, quadri antichi, mobili pregiati, auto di lusso. Lui è avvocato, lei la moglie fedele e accondiscendente che lo ha accompagnato per diciotto anni a farsi strada nella società che conta senza mai reclamare nulla, finché qualcosa si spezza. Barbara sente l’esigenza di affermarsi, è stanca di essere l’ombra di suo marito benché non le faccia mai mancare nulla e vuole aprire una società di catering per dedicarsi a tempo pieno della cucina. Jonathan non vede di buon occhio questa sua decisione ed ecco che il rapporto si incrina. Le certezze di Jonathan cominciano a scricchiolare (come l’arredamento che è parte integrante della casa coniugale, messa su dalla sapiente mano di Laura Benzi), sua moglie ha trovato il coraggio di ribellarsi a lui; lui che aveva pianificato tutta la loro vita insieme, lui che le ha dato due figli, l’ha ricoperta di denaro e ricchezze e le ha fatto il dono della loro bella casa, oggetto della loro contesa e pretesto che alimenterà ogni giorno di più sempre il loro odio reciproco.
Ed è attorno alla casa comune che ruota la storia dei Roses, che nessuno dei due è disposto a cedere all’altro per orgoglio, per avidità, per supremazia, per non soccombere. Ad aiutarli in questa guerra – e mai fu utilizzato termine più esatto – i due avvocati, Goldstien (Massimo Cagnina) e Thurmont (Emanuela Guaiana) che più che mediare la questione sono più interessati a farsi (anche loro) la guerra per mezzo dei loro clienti. La guerra dei Roses diventa così uno spettacolo matrioska: si parte dalla guerra generale per poi sprofondare in tante piccole guerre; la guerra dei tribunali, la guerra scaturente dalla fine di un matrimonio, la guerra per il successo, la guerra tra civili, la guerra gratuita, la guerra tra i sessi, la guerra tra colleghi di lavoro, la guerra delle parole, degli insulti e delle minacce.
Ne La guerra dei Roses insomma si assiste allo sfacelo della società attuale, al disastro messo in atto dall’uomo contro la sua stessa natura provocando, in chi assiste, un senso di imbarazzo, di malinconia, di angoscia e anche di egoismo. Lo spettacolo conserva parte della sua ilarità e del grottesco, presente anche nella pellicola di Danny De Vito, tratti di comicità messi apposta per smussare i toni aspri dei protagonisti e per renderli più similmente vicini agli atteggiamenti in cui ormai siamo soliti far parte sia in famiglia, con gli amici e con la gente. Un grande plauso va anche alla scenografia curata dalla Benzi, l’idea di creare una scalinata un po’ distorta che conduce al piano superiore di casa Rose fa subito pensare che non sempre le cose nella vita prendono la giusta direzione, sta all’uomo/animale sapersi adeguare e, ove non riesce, è solo destinato a soffrire e morire. Deliziose le musiche di Arturo Annecchino che preannunciano quanto sta per accadere sul palco e le luci di Pasquale Mari che, sul finale, si tingono di rosso e accompagnano Barbara e Jonathan nella loro discesa all’inferno (segno che dal male non può che scaturire il male e che non ci si libera di esso nemmeno nella tomba).
Una scenografia/realtà dalla quale non si può sfuggire, a patto che si decida di porre un freno a quanto sta accadendo, altrimenti quel che resta sarà solo un palco con i nostri scheletri umani e non.
Costanza Carla Iannacone
20 dicembre 2017