Recensione dello spettacolo “Èdith Piaf. L'usignolo non canta più” in scena al Teatro Off/Off dal 28 Novembre al 10 Dicembre 2017
Buio completo sul palcoscenico e in sala. Dall’oscurità emerge una voce, poderosa e dolente. Le note sono quelle celeberrime di “La vie en rose”. Gli armonici gravi vibrano sulle pareti, il suono colma completamente il vuoto di luce. Nella scena iniziale è la sintesi dello spettacolo.
1960. Èdith Piaf, l’usignolo di Francia, è piegata da una vita da sempre eccessiva, iniziata sulla strada, che idealmente non ha mai abbandonato.
Il fisico minuto è curvato dall’artrite, deformato dai farmaci, marcito dall’abuso di alcool; il cuore è lacerato dalla morte del grande amore Marcel Cerdan; l’animo percosso dall’ingratitudine, minacciato dal nero avvoltoio della solitudine. Il buio che la avvolge sembra aver vinto: l'usignolo non canta più.
Ma la luce si riaccende, sul palcoscenico come nella vita di Èdith, quando compare la figura di un uomo: è Bruno Coquatrix, l'impresario dell’Olympia. Insieme rievocano il passato, ma non è lì per quello. La vuole sul palco, ha per lei una nuova, bellissima canzone e un elegante abito nero. E l’usignolo, passo incerto, sguardo spalancato sui dolori della sua vita, tornerà sul palco per l’ultima clamorosa esibizione.
“Èdith Piaf. L'usignolo non canta più” è un testo inedito. Come rivelato alla fine della rappresentazione dalla protagonista Melania Giglio, che ne è anche autrice, nasce per l’apertura di questo nuovo spazio, il Teatro Off/Off, struttura che espone le sue ambizioni già con la cura utilizzata nella progettazione.
L’estrema linearità della drammaturgia, concentrata nella durata di poco più di un’ora, denuncia l’esclusiva finalità di un rispettoso omaggio alla grande chanteuse. Si astiene da una rilettura del personaggio, la sua biografia tormentata non la necessita, ma soltanto lo racconta.
La Giglio non esita a farlo in modo affettuosamente irriverente, mostrando le bizze di una personalità temperamentale e paludando la sua Piaf abbrutita dall’isolamento in vestaglia e pantofole di un improbabile rosa, mentre Martino Duane impone la sua intensità, rivendicando la funzione necessaria che il suo personaggio ha nella narrazione.
L’espediente narrativo le è però funzionale: il perno dello spettacolo è, come deve essere, la musica.
Melania Giglio è solita non separare i suoi talenti di attrice e di cantante: nelle sue interpretazioni opera una commistione nell’utilizzo dei due strumenti dando vita a forme espressive originali. Lo stesso regista Daniele Salvo peraltro è da tempo impegnato in una approfondita ricerca sulle potenzialità della voce, che nei suoi allestimenti utilizza in modo esasperato (ad esempio in “Dionysus – Il dio nato due volte”).
In questo spettacolo la cesura è invece netta. La cantante non vuole interferenze nella modulazione della voce. Coerente al desiderio di omaggiare senza sovrapporsi, l’attrice si limita ad una mimesi fisica (perfetta nell’esibizione finale). Vengono così eseguiti i grandi classici della Piaf, dalla summenzionata “La vie en rose”, a “Milord”, a “L'accordéoniste”. Ma è con l’interpretazione viscerale, struggente, potentissima di “Non, je ne regrette rien” che la Giglio ottiene l’ovazione di una platea stracolma.
Gli attori, il regista hanno fatto un passo indietro per lasciare il centro della scena ad Èdith Piaf. Chi vorrà omaggiarne il ricordo sarà emotivamente trasportato, partecipando della loro stessa devozione. Ma così pure chi crede, come Melania Giglio, che l’arte sia salvifica e che il canto, vincente, possa emergere comunque dal buio.
Valter Chiappa
29 novembre 2017