Spettacolo andato in scena dal 21 al 26 novembre 2017 al Off – Off Theatre di Roma
Cosa cerca un individuo per tutto il suo percorso se non la libertà e l’amore. Riesce a cogliere i frutti di entrambi ? Riesce a capire su quale filo amore e libertà stiano e in che modo uno non sovrasti l’atro ? Ma soprattutto si è sicuri che una vita basti per trovare il capo di questo filo e su quale tipo di connessione amore e libertà abbiano ragione di esistere?! Nel continuo flusso di coscienza, il soffermarsi ad una consapevolezza che è dettata da una scelta, può essere un’ancora adatta a cercare il compromesso per risolvere i dubbi a cui l’individuo non può sottrarsi nella sua condizione esistenziale? Oppure tale flusso rappresenta il carattere intellettivo che contraddistingue l‘individuo come essere pensante, il quale interrogando la propria ragione mette l’individuo stesso in una condizione di rendere il proprio pensiero libero ma difficilmente concretizzabile nella realtà circostante?
A tali domande sembra poter rispondere solo una condizione esistenziale vivibile soltanto in quello che l’inferno può esprimere. A differenza invece di ciò che il paradiso presuppone; ovvero una raggiungimento per la salvezza dell’individuo dovuta ad un percorso etico da egli compiuto, in quanto responsabile delle proprie azioni, che sono capaci di privarlo dell’esplorazione riguardante il grado di consapevolezza instaurato tra quel legame di libertà e amore al quale l’uomo non può sottrarsi. A porte chiuse sembra esprimere come l’inferno si soffermi meglio sulla ricerca delle condizioni esistenziali dell’uomo, diversamente dell’immaginario “para-disiaco” che tende a sottolineare il raggiungimento di un equilibrio che favorisce l’accettazione dei valori umani come un raggiungimento di un obiettivo.
L’inferno non mostra solo gli effetti delle azioni umani ma è capace di scomporle nel loro grado emotivo, arrivando a rendere concreto ciò che solitamente si pensa sia mosso dallo spirituale. Anche in questa chiave di lettura, il filtro usato dal regista Andrea Adriatico rende maggiormente visibile l’adattamento dell’opera sul quale lo spettacolo fa da lente sulla poetica di Sartre. La concettualizzazione del quadro umanistico dal carattere ateo, accostabile ovviamente all’umanesimo ateo del quale parlava l’autore francese, è affidato agli armonici strumenti drammaturgici di Gianluca Eria, Teresa Ludovica, Francesca Mazza e Leonardo Bianconi. La consequenzialità con la quale gli attori entrano in scena determina già il ritmo armonico dello spettacolo che si vedrà amplificare nello stile drammaturgico che gli attori operano anche nell’interagire tra di loro.
Il minimalismo scenografico oltre a dare spessore e concretizzazione al testo, rende maggiormente viva la costruzione dei gesti degli attori, i quali sono capaci di rendere la parola come un’immagine; in un contesto in cui essa trasporta immediatamente lo spettatore in un vissuto contemporaneo. Il fastidio provocato ai personaggi all’interno del quadro scenico è messo in evidenzia anche dall’unico cambio di luce; l’accecatore sinonimo di un’azione compiuta da parte del cherubino spinge il personaggio e lo spettatore a rendersi conto di quanto sia davvero difficile avere la consapevolezza di vederci chiaro proprio nel momento in cui “si fa maggior luce” sulla chiarezza degli avvenimenti. Il bianco e il nero delle quinte e del monumentale letto matrimoniale, il quale assume una funzione di zattera accogliente delle anime in continuo procinto di affondare, contribuiscono a dare un senso di tridimensionalità all’opera.
Questo avviene non solo per la qualità delle azioni che si svolgono nel quadro scenico, ma soprattutto tale effetto prospettico riesce ad annullare tempo e spazio, assegnando al linguaggio non solo il ritmo della storia; ma soprattutto fa sì che lo spettatore trasla il ritmo dettato dal contrasto che c’è tra il tempo della parola e la stasi dell’immagine evocata. La riflessione su quest’ ultimo aspetto descritto mostra il particolare punto di vista dialettico, che si manifesta nella differenza tra il momento in cui lo spettatore vede e il momento contemporaneo in cui egli ascolta ciò a cui assiste, in questo parallelismo s’innesca l’analisi esistenziale condotta dalle creazioni che lo spettatore crea.
L’immutabilità del tempo, associata all’immutabilità della condizione dei personaggi è data dal canto libero di Battisti. La canzone a scaglioni accompagna alcune vicende della storia. Oltre a rappresenta un mondo che non ci vuole più, si fa portavoce di un processo di storicizzazione che richiama la lentezza culturale che non ha consentito ai personaggi di agire nella loro vita ormai finita e lo spettatore coglie questa lentezza mentre accoglie un brano non tanto borghese per quel che dice ma per quel che ha rappresentato. In questo punto di analisi è esplicitato come i funzionamenti sociali condannano l’individuo a comportamenti addomesticati all’interno della società, dove gli usi e i costumi costituiscono i valori effimeri di cui la massa è caratterizzata. Ma siccome nella contraddizione vi si coglie il senso poetico, come a dire che solo tramite il drammatico si può cogliere il comico e viceversa, il brano di Battisti è in grado di far comprendere maggiormente la poeticità del dramma, grazie proprio a quel valore malinconico che la classe borghese sembra non poter reggere, perché non in grado di sopportare le debolezze di cui l’individuo è costituito, le stesse debolezze vissute dai personaggi.
Il lavoro degli attori, che non hanno bisogno di presentazioni di abbellimento cronistico, riporta il senso artigianale di un quarantennio di ricerca teatrale che si manifesta attraverso il percorso personale che gli attori hanno compiuto, quasi a dimostrare la capacità innovativa, di quella tradizione che pure era innovativa e che portò nel termine avanguardia le tematiche ancora oggi presenti nel tessuto sociale. Infatti lo spettacolo apre a tematiche contemporanee dimostrando la coerenza del valore artistico apportato da quel teatro di “avanguardia” condotto da Bene, De Berardinis e Quartucci, autori che hanno avviato un lavoro poetico tramite l’artigianato, inteso come creazione interiore ed esteriore adatta ad intervenire in una semiotica del linguaggio e di conseguenza di rientrare nei tessuti politici, concepiti come archetipi culturali alla base delle condizioni esistenziali dell’individuo, il quale è artefice dell’ istaurazione dei modelli culturali. Lo spettatore si ritrova, non accorgendosi, in una condizione di libertà intima, capace di portarsi alla fine come immagine dello spettacolo quella di uno specchio, dove non tanto “Narciso” si ci rivede all’interno ma riesce a riflettersi solo vedendone la propria ombra.
E’ la ricerca di questa ombra che rende chiara l’immagine di un sé. L’inferno assume forma catartica, non come purificazione o accettazione passiva, ma come consapevolezza che il mancato lieto fine che spesso è attribuito al senso romantico concepito come una culla per l’anima, viene meglio individuato dalla crudezza che ognuno di noi nasconde nella propri ombra e come questa ombra non sia un’immagine; ma l’immagine di un percorso che come sosteneva Sartre è visto in quel umanesimo ateo, nel quale la credenza ha bisogno di processi dialettici concreti. Tali processi vanno a soddisfare le esigenze dell’espressione di un’avanguardia ancora presente e che si è lieti di concepirla ancora come un fattore innovativo e presente. Quindi si partecipa non solo all’epifania di un’ispirazione o ad un riaggancio del passato che ha riguardato una corrente teatrale. Anche questo, tramite l’attivo lavoro della compagnia è fortunatamente pienamente comunicato e consegnato “a porte aperte”!
Emiliano De Magistris
29 novembre 2017