Mercoledì, 27 Novembre 2024
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Franco Branciaroli convince (di nuovo) nei panni della Medea di Ronconi

Recensione dello spettacolo Medea in scena al Teatro Quirino dal 24 ottobre al 5 novembre 2017

 

Cosa ci fa una balia in cima ad una pila di bauli e valigie, mentre in alto un doppio maxi schermo trasmette immagini di operazioni chirurgiche e paesaggi naturali? E perché mai il futuro re di Corinto sembra uscito da un film degli anni Cinquanta e non dalla Grecia del V secolo a.C. di Euripide? Si potrebbe chiedere lo spettatore se non sapesse che la Medea riallestita da Daniele Salvo, attualmente in scena al Teatro Quirino, vanta la regia di Luca Ronconi. 

Ancora una volta il pluripremiato regista, scomparso nel 2015, riesce a stupire e a dare una nuova interpretazione al testo classico. E non attraverso un processo di attualizzazione e avvicinamento ai giorni nostri: al contrario, prendendo le distanze, o meglio, accentuando le differenze rispetto alla società e al teatro di oltre duemila anni fa. 

Non bisogna aspettare neppure un minuto per capire che la Medea portata in scena da Ronconi (per la prima volta nel 1996) non è la donna pazza di gelosia e la femminista ante litteram pronta a sacrificare i suoi figli, pur di (ri)vendicare la sua dignità di donna. Non solo perlomeno. 

È la minaccia, la figura mostruosa che entra ed esce dal palcoscenico e dalla mitologia greca con le mani sporche di sangue. Di suo fratello prima, dei suoi figli poi. È la figura contradditoria che sa essere violenta e fragile, divina e umana. In una parola: inquietante.

Non è un caso che a interpretarla (di nuovo e in maniera eccezionale) sia un uomo, Franco Branciaroli, che precisa: “io non interpreto una donna, sono nei panni di un uomo che recita una parte femminile. È molto diverso”. In effetti, non sono la sottoveste nera e le scarpe col tacco che indossa, per quasi tutto lo spettacolo (due ore senza intervallo), a renderlo una donna. Medea lo sa, il pubblico pure e da prima ancora dell’ingresso in scena: gli basta ascoltare la voce, che Branciaroli volutamente non assimila mai al parlato femminile, per capirlo immediatamente. 

Il fatto che a impersonare Medea sia un attore di sesso maschile non è un ritorno al teatro delle origini, dunque, ma uno degli artifici di cui Ronconi si serve per sottolineare come la femminilità, nella sua tragedia, sia solo una maschera funzionale a Medea per ottenere l’appoggio delle donne di Corinto (il coro) e compiere il suo destino. Più che un ritorno al teatro classico è un ritorno al mito, alla storia fatta da divinità vendicatrici e spietate e da uomini vittime e carnefici. Con le dovute eccezioni. 

È vero, Medea ha tradito la sua patria e ucciso il fratello per salvare il futuro sposo Giasone (Alfonso Veneroso) e paga le conseguenze delle sue azioni con la perdita dei suoi stessi figli; lo stesso Giasone paga il prezzo del tradimento coniugale con la morte della prole, del suocero e della futura regina di Corinto, che gli avrebbe garantito una dinastia e un regno. Eppure, la barbara Medea è una figura mitologica anticonvenzionale, soprannaturale e al tempo stesso capace di sentire come un essere umano. 

Più e più volte si mostra titubante nei confronti del suo machiavellico piano. Soffre al pensiero di uccidere i suoi figli; soffre per essere rimasta sola, senza un marito e una terra che voglia ospitarla. È questa sua fragilità ad avvicinarla al pubblico e alle donne di Corinto, che quasi la inducono a vendicarsi, almeno fino a quando non scoprono le sue diaboliche intenzioni. Perché, ciononostante, Medea non rinuncia ai suoi piani e, tra un pianto e una battuta ironica (“noi donne siamo incapaci di far del bene, ma espertissime in ogni genere di male”), prepara gli spettatori e se stessa all’exploit finale. 

La vediamo, fredda e distaccata, compiacersi al racconto della morte di Creonte e della regina e, vittoriosa sul carro del dio Sole, mostrare a Giasone i corpi inermi e insanguinati dei suoi due figli: vittime innocenti, incapaci di cambiare il corso della storia e per questo muti per tutta la durata della tragedia.

Come muti e stupefatti restano gli spettatori a fine rappresentazione: per non aver ritrovato tracce di quell’antica Grecia che si aspettavano, se non a tratti nel linguaggio usato; per aver conosciuto una Medea incredibilmente terrena, persino moderna (come quando invita a cena l’ex marito per scusarsi) e al tempo stesso distante, lontana anni luce da ogni forma di realtà (come quando incontra il re di Atene Egeo e usa i suoi poteri soprannaturali). Spiazzati per non riuscire a trovare un apparente senso tra gli oggetti e pezzi di arredo sparsi, la scala antincendio, le poltroncine di un vecchio cinema e quelle immagini di modernità in sovraimpressione che tanto disorientano e angosciano.

E forse è proprio questo che piace di Ronconi: il non dare mai nulla per scontato.

 

 

Concetta Prencipe

29 ottobre 2017

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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