Recensione dello spettacolo Bestie di scena in scena al Teatro Argentina dal 13 al 22 ottobre 2017
Cosa accade a un essere umano quando lo si priva di tutto ce lo insegnano – o dovrebbero insegnare – il racconto dei sopravvissuti all’inferno della Storia o i più disturbanti casi di cronaca. Un’esperienza che, invece, è ricorrente stato mentale di chi ha scelto di essere attore: privarsi del proprio nome, della propria biografia, delle proprie abitudini e della propria unicità per il tempo della rappresentazione è per questa professione una conditio sine qua non. Va, inoltre, fatto senza vergogna: anche a ciò sono finalizzati il training, un certo tipo di contatto corporeo molto stretto tra coloro che fino prima di ritrovarsi nello stesso cast erano degli sconosciuti o l’eventualità ricorrente di doversi cambiare in fretta, dietro le quinte e senza alcuna privacy. Che succede, però, se si portano le suddette consuetudini allo stremo?
Emma Dante, attraverso il suo Bestie di scena, dà una risposta a questo quesito attraverso uno spettacolo fisicamente estenuante per chi lo interpreta ma anche capace di mettere in crisi chi guarda: non a causa della tanto chiacchierata nudità - mai così ben accetta come quando non è gratuita - ma per la sensazione di stare assistendo a qualcosa di ancor più intimo, proibito, che non si dovrebbe vedere. Lasciare la luce accesa in sala - meglio se puntata sugli spettatori – alza ulteriormente la posta facendo sì che gli attori, solitamente facilitati dal non vedere nulla dal palco, notino chiaramente chi guarda chi e, soprattutto, cosa.
Dopo un estenuante allenamento coreografico, iniziato già prima che il pubblico si accomodi al suo posto e durato in tutto una ventina di minuti, Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Alessandra Fazzino, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli – vanno citati tutti perché bravissimi – si spogliano dei loro abiti sportivi e rimangono nudi. L’imbarazzo tra il pubblico è palpabile considerando che, a causa dell’illuminazione diffusa, non c’è modo di spiare senza esser visti. Una sensazione mimata anche dagli interpreti, impegnati a fingere una vergogna che è solo riflesso. Una via di fuga da quest’inconfessabile empasse parrebbe fornirla il gran numero di oggetti gettati in scena: il primo è un grosso bidone d’acqua legato a una catena. Chi vuol bere, giunto al proprio turno, deve fisiologicamente rivelare qualcosa di sé alzando le braccia per portare l’acqua alla bocca, mentre qualcuno pietosamente cerca di coprirne i genitali. Dopo così tanta fatica, del resto, avranno pur diritto a dissetarsi: niente di più errato! Il copione prevede che il liquido rimanga in gola nonostante l’inevitabile arsura, pronto a mutarsi in uno spettrale e simultaneo zampillo. Ogni altro elemento esterno, scaraventato sul pavimento o calato artificialmente dall’alto, diverrà fonte di mania e motivo per dare sfogo alle emozioni più primitive: la rabbia, la cattiveria, il coraggio, la cupidigia, l’emulazione sono riassunti in cose che perdono il loro significato più banale e materiale per divenire medium di tanto altro. Un crescendo tale da rendere abituale tutto: la nudità, all’improvviso, non pare più tale. È questo l’eden nuovamente - sebbene momentaneamente - raggiunto?
Bestie di scena, nato come indagine sul lavoro dell’attore, alla fine ci parla della decostruzione – quindi per via negativa anche della costruzione – dell’individuo. Lo fa spogliandolo in qualunque senso ma mai della sua umanità più autentica, viscerale, subcosciente: quella trasuderà dall’inizio alla fine, braccata come una bestia senza possibilità di scampo.
Cristian Pandolfino
18 ottobre 2017