Mercoledì, 27 Novembre 2024
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C’ è un borghese…che ama mille cose e si perde tra le strade del mondo

Recensione dello spettacolo Un borghese piccolo piccolo andato in scena dal 13 al 15 ottobre al Teatro Tor Bella Monaca e dal 17 ottobre al 5 novembre 2017 al teatro Eliseo

 

Nella società contemporanea perdersi assume spesso il sinonimo di ricerca. Indubbiamente perdersi può far trovare strade del tutto nuove e migliori delle precedenti; ma perdersi continuando a proseguire lo stesso cammino più che rendere confuso il percorso e confonde chi l’affronta. La parafrasi del titolo del brano di Sergio Endrigo, Io che amo solo te, presente all’interno dello spettacolo oltre a conferire tragicità all’opera nel momento in cui la riguarda, rappresenta in maniera lirica come il borghese, Giovanni Vivaldi, si sia perso su una strada effimera che la società a lui contemporanea gli ha costruito.

Il brano di Endrigo arriva nel punto di climax dello spettacolo; nel momento in cui le scelte del personaggio, interpretato da un vero artigiano del palcoscenico quale Massimo D’Apporto, conducono il protagonista alla consapevolezza di come le scelte da lui fatte all’ interno del tempo della storia riguardino i processi socio-culturali da lui vissuti. Io che amo solo te, avvolge l’ intimo dei personaggi e del protagonista all’ interno della scena e pone un punto di riflessione su come che la società capitalista influisce soprattutto sullo stato d’animo dell’ individuo. L’amore che vive il personaggio per la sua famiglia e per ciò che ha costruito nel corso della sua vita, coglie l’ aspetto più conservatore della società borghese.

Il tentativo di Giovanni Vivaldi per migliorare e proteggere il suo ambiente familiare, cercando di soddisfare i bisogni che i valori della società impone, sembrano esprimere in una errata traduzione delle azione che esegue un amore verso gli affetti sociali. Il Vivaldi si perde tra le strade del mondo pur rimanendo sempre sullo stesso sentiero, quello della corruzione, alimentato da una superficialità che spinge l’ individuo a credere che in fondo non c’è niente di male a pensare che tutto si possa risolvere in una espressione leggera degli ideali. Questo concetto si vede rappresentato durante tutto lo spettacolo fino al raggiungimento del suo picco massimo, dove Endrigo nel ti regalerò tutto il resto della mia gioventù  esprime incornicia l’intera vita borghese come un’ombra che il personaggio vive e come un’ ascesa sociale che è solo proiezione del subconscio, nel quale il protagonista è proiettato in una realtà che adempie a mostrare la formalità dell’ educazione e l’ipocrisia di chi fa dell’ umiltà un mezzo per mirare a propri obiettivi materiali.

Quello che potrebbe considerarsi come l’aspetto del subconscio dei personaggi è reperibile durante tutto lo spettacolo, partendo dalle scelte drammaturgiche del regista Fabrizio Coniglio. Il palcoscenico mostra contemporaneamente gli ambienti che riguardano le vicende della vita del protagonista; ad assecondare i suoi spostamenti nel tempo e nello spazio sono i cambi di luce che lo guidano nel luogo deputato in cui si trova, così da presentare lo svolgimento della sua vita. Il vagare dell’attore continuamente da una parte all’altra del palcoscenico inseguendo le luci che mostrano il luogo dove si reca, sembra rappresentare un po’ i processi interiori del suo subconscio; l’abilità di Massimo D’Apporto di sorprendersi continuamente ogni volta che si ritrova in luoghi diversi, oltre che a mostrare il valore inopinabile dell’ attore, rende allo spettatore il substrato delle idee che determinano le sue azioni e gli effetti di esse; che se risultano chiare per quello che si nota accadere in scena, sembrano essere meno chiare alla consapevolezza del personaggio quando decide di agire.

La scena, che non muta attraverso cambi scenografici, ma fa dell’ intera scenografia l’habitat degli attori, raffigura tutti i luoghi che contraddistinguono la vita del protagonista, luoghi che Vivaldi frequenta abitualmente e che ci consentono di cogliere ulteriormente quali siano i processi sociali borghesi, che per la maggior parte si basano nel luogo di lavoro o nel contesto familiare. Tutto ciò che di nuovo avviene nella vita di Giovanni Vivaldi , avviene dal di fuori del palco. Il regista sceglie la platea per immettere personaggi extradiegetici o per svelare le ambiguità presenti nei dialoghi condotti da Vivaldi e il figlio. La platea nel divenire un luogo deputato dello spettacolo, proietta maggiormente lo spettatore non solo nella vita dei personaggi ma anche negli stati d’animo che questi vivono. Inoltre sottolinea in maniera più marcata le dinamiche dell’ ambiente borghese, in quanto nel momento in cui gli attori si avvicinano agli spettatori fanno da eco ai processi sociali che probabilmente il singolo spettatore vive nella quotidianità.

La regia, che fa comprendere la parte psicologica meno visibile che i personaggi vivono, richiama le varie tematiche che il teatro del novecento ha percorso; proponendo il tentativo di svelare e rappresentare i processi inconsci che caratterizzano il comportamento dell’individuo. L’aspetto beckettiano o del teatro di Ionesco che riguarda la maggior parte dei dialoghi ai quali assistiamo, è perfettamente capace di coalizzare l’aspetto tragico e comico nel momento in cui la parola detta ha voce. Questi aspetti del teatro novecentesco accostabili allo spettacolo considerato sembrano adatti a svelare significanti dietro significati, aspetto questo che richiama anche la simbologia dietro la quale il teatro del novecento basa il suo linguaggio. Un altro punto di incontro potrebbe essere fatto con il teatro brechtiano, dove l’urlo di Madre Courage echeggia immediatamente nel momento in cui si assiste alla scena finale, dove Susanna Marcomeni che interpreta la moglie di Vivaldi risulta impressionante come riesca ad esprimere l’ infinito dolere per il figlio morto nel emettere l’ urlo muto e di conseguenza come riesca ad incentrare nella sua ultima smorfia la negligenza di una classe sociale che non può non sottrarsi alla tragicità delle proprie azioni.

L’intero cast è sempre seguito dal pubblico per tutta la durata dello spettacolo, tutti gli attori sono capaci di apportare al personaggio caratteristiche che rendono esplicito il lavoro dell’attore, mostrandone il valore artigianale che questo mestiere comporta. Massimo D’apporto, Susanna Marcomeni, Roberto D’Alessandro, Fabrizio Coniglio e Federico Rubino sottolineano la qualità dello spettacolo per la capacità di non trascurare ogni singolo tono, movimento, gesto, silenzio e così facendo pongono un punto di riflessione su come questo lavoro abbia bisogno di una costante cura in ogni prova ed in ogni momento dentro e fuori dello spettacolo. L’attore oltre a nutrire continuamente il personaggio ha bisogno di nutrire la propria anima, anche in questo caso dentro e fuori dal teatro. Esempio tangibile è stato Massimo D’Apporto, il quale concedendoci gentilmente una breve intervista per noi de La Platea a fine spettacolo, ci ha comunicato in maniera intensa quanto questo lavoro sia un continuo divenire conoscitivo in termini intellettuali e pratici.

A Massimo D'Apporto abbiamo chiesto:

Come ha lavorato per avvicinarsi e interpretare questo personaggio?

“Vado sempre a ricercare qualcosa. Siccome lo spettacolo è richiamo al film di Monicelli, più che basarmi su questo, ho pensato a ricercare basandomi sul romanzo di Cerami, dal quale a sua volta è stato ispirato il film. Il romanzo è stato più interessante perché nascondeva nella sua natura la violenza ed il lato oscuro del personaggio. Ma oltre alla ricerca che riguarda il materiale artistico, vado a ricercare quello che avviene nella vita di tutti i giorni, nei comportamenti di una persona qualsiasi, perché è lì che si possono notare i maggiori paradossi che riguardano i comportamenti delle persone e si può cogliere la maggiore naturalezza di queste.”.

 

C’è stato un lavoro che più di tutti considera significativo o che l’ha aiutata ad affrontare questo personaggio?

“Il lavoro sulla Coscienza di Zeno di Svevo è stato fondamentale non solo per avermi mostrato la parte inconscia dell’individuo, ma perché è stato capace di concedermi un modo per scavare ulteriormente dentro la vita. E in questo spettacolo ci trovo degli accostamenti, perché come già detto, determina dinamiche di un personaggio nel profondo violento, che ha un’intimità con il compromesso, il quale è visto come un mezzo che rientra in una sera emotiva che questo personaggio vive”.

 

Anche se la domanda può sembrare banale per la sua ovvietà, in cosa crede sia attuale lo spettacolo, considerando i valori della società odierna?

“La cosa che emerge continuamente dal passato al presente italiano e che mostra la parte oscura dell’ uomo senza che nessuno dica un gran che, è il concetto della giustizia fai da te, che sottolinea anche un disinteressamento da parte di chi dovrebbe intervenire per far sì che questo modo di pensare non esistesse”.  

 

Emiliano De Magistris

18 ottobre 2017

 La Platea, la rivista dedicata al mondo del teatro e dell'arte. Registrata al Tribunale di Roma, n° 262 del 27 novembre 2014
 

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